L’economia cinese, già in difficoltà, si prepara a conoscere tempi ancora più duri. Il regime cinese, guidato da Xi Jinping, ha dichiarato apertamente di non voler cedere nella battaglia commerciale con gli Stati Uniti. La resistenza ostinata del regime, è dovuta al sistema economico cinese, fortemente legato alle esportazioni.
«Se gli Stati Uniti chiudessero ora il loro mercato con la Cina, sarebbe una catastrofe, perché nessun altro mercato a livello mondiale potrebbe sostituirli» spiega Henry Wu, economista di Taiwan, «la Cina non riuscirebbe a dirottare i prodotti verso Africa, Medio Oriente o Sud America per compensare la perdita della domanda americana».
Sebbene ci siano sempre più preoccupazioni sulle prospettive economiche, Pechino ha risposto duramente contro i recenti dazi americani, imponendo a sua volta dei controdazi del 125% e mettendo al bando decine di aziende statunitensi.
LA PRECARIA DOMANDA INTERNA CINESE
Il premier cinese Li Qiang, responsabile dell’economia, ha già riconosciuto i danni che i dazi hanno portato all’economia cinese, assicurando però che Pechino è pronta ad affrontare le incertezze. Ha inoltre esortato esperti e imprenditori a restare fiduciosi, promettendo di puntare sul rilancio della domanda interna, vista dal Partito come «priorità a lungo termine».
Ma deviare l’intera produzione destinata all’esportazione verso il mercato interno sarebbe impossibile, spiegano gli analisti, perché i cinesi, tradizionalmente portati al risparmio, ora spendono meno dopo le rigide misure anti-Covid adottate da Pechino (i cui effetti sono tutt’altro che svaniti). E anche la crisi immobiliare, in cui molte famiglie hanno investito i loro risparmi, non fa altro che aumentare la paura dei cinesi per il futuro. E chi ha paura per il futuro non spende.
E l’Unione Europea, che da anni denuncia squilibri commerciali con la Cina, ha già espresso la propria preoccupazione. Ursula von der Leyen ha chiesto a Li Qiang di affrontare «il possibile dirottamento commerciale causato dai dazi, specie in settori già colpiti dalla sovrapproduzione internazionale».
A Yiwu, città famosa per l’export di prodotti come decorazioni natalizie e merchandising elettorale statunitense, le aziende stanno già accusando già il colpo dei dazi. Un imprenditore locale, che ha chiesto di mantenere l’anonimato per paura di ritorsioni, ha dichiarato che i suoi clienti un tempo regolari, e che compravano molto, ora non si vedono più: «Le imprese dipendenti dal commercio estero sono in ginocchio, molti operai non hanno più nulla da fare»; i dipendenti, prima con un solo giorno di riposo a settimana, ora ne hanno tre o quattro, «la situazione è veramente drammatica».
LO SPETTRO DELLA DISOCCUPAZIONE
Secondo gli analisti, I dazi potrebbero spingere le aziende a chiudere o a delocalizzare, mettendo a rischio milioni di posti di lavoro. Nella provincia del Guangdong, cuore della produzione destinata alle esportazioni, molte aziende di elettronica, illuminazione e abbigliamento avevano ordini dagli Stati Uniti fino a fine anno, spiega l’imprenditore taiwanese Lee Meng-chu, ma con i dazi Usa al 145% «tutti gli ordini sono stati cancellati e i prodotti si accumulano nei magazzini».
Alcuni imprenditori, per sopravvivere alla guerra commerciale, stanno ripensando le proprie strategie trasferendo la produzione in posti come Indonesia, Taiwan, Singapore e Malesia. Questo esodo potrebbe lasciare sempre più giovani cinesi senza lavoro. Foxconn, colosso taiwanese fornitore di Apple, solo con la chiusura del proprio stabilimento di Shenzhen porterebbe alla perdita di oltre 800 mila posti di lavoro.
Già prima della guerra commerciale, il tasso di disoccupazione giovanile in Cina aveva raggiunto il 21,3% a giugno 2023. E ora gli esperti prevedono un ulteriore peggioramento, con ovvi effetti devastanti sulla popolazione.
LA SFIDA IDEOLOGICA
Stati Uniti e regime cinese sono arrivati alla resa dei conti, e gli analisti ritengono che la disputa commerciale trascenda i dazi. Se da una parte Trump affronta le pressioni dei mercati e dei parlamentari americani, dall’altra Xi Jinping deve consolidare il potere del Partito Comunista Cinese, senza venir meno agli interessi politici. Ma la (grossa) differenza tra Trump e Xi, è che il presidente americano è forte del plebiscito popolare che lo ha messo alla Casa Bianca. Xi dopo tutto non è altro che un dittatore espressione di un regime che ha preso il potere in Cina con una “rivoluzione” (o meglio un colpo di Stato). Xi non ha nessuna legittimazione: la sua unica forza è quella bruta, la violenza di cui si serve per restare al potere.
Secondo l’economista Davy J. Wong, infatti, «il regime cinese è un sistema chiuso che rifiuta qualunque tipo di sfida esterna, dal potere alle informazioni, fino ai dissidenti». I vertici del Partito Comunista Cinese, i funzionari locali e le imprese internazionali stanno osservando attentamente se Xi Jinping riuscirà a mantenere il controllo. E il potere. Xi Jinping non ha mediato subito con Trump perché scendere a compromessi senza prima reagire rischierebbe di compromettere la “legittimità” del Partito comunista cinese. I dazi, insomma, sono solo la punta dell’iceberg: quello che sta in realtà verificandosi è uno scontro tra ideologie, tra sistemi sociali ed economici.
Ma la guerra dei dazi potrebbe sconvolgere gli equilibri di potere nei vertici del regime. L’escalation con Washington, ha portato ha portato alla rimozione di decine di leader militari e funzionari, inclusi alcuni fedelissimi di Xi.
Questo ha alimentato fondate ipotesi su un conflitto interno del Partito comunista cinese. Sebbene i vertici del Pcc condividano tutti l’interesse a mantenere il potere, le opinioni sulla guerra commerciale (e non solo) divergono; e un secolo e mezzo di Storia dimostra come il conflitto e le lotte intestine siano il pane quotidiano di ogni manifestazione del marxismo, comunismo cinese incluso. Il sistema economico cinese è sull’orlo del baratro da diversi anni ormai. E i dazi americani potrebbero essere la spintarella che farà precipitare il Pcc in fondo alla scarpata.