La mano strisciante del regime cinese sull’estremo oriente russo

di Tamuz Itai per ET Usa
31 Agosto 2025 13:56 Aggiornato: 31 Agosto 2025 13:56

Nelle strade di Blagoveshchensk o Vladivostok, nell’estremo oriente russo siberiano, a colpire non è l’architettura dell’epoca sovietica o l’immensa distesa siberiana, ma l’onnipresenza cinese: insegne, menu, brochure degli hotel e persino alcuni segnali stradali ora sono in cinese, e solo dopo le proteste degli abitanti sono stati sostuiti con bilingui vicino al ponte di confine. Non si tratta di un’annessione, ma di un segno evidente di un profondo mutamento: queste città si stanno riorientando verso sud, alla ricerca di commercio, turismo e investimenti dall’altra sponda del fiume Amur, che separa la Russia dalla Cina. Negli ultimi anni, due nuovi collegamenti infrastrutturali hanno ridotto la frontiera.

Il primo ponte stradale tra Russia e Cina è stato inaugurato a Blagoveshchensk-Heihe nel giugno 2022; il primo ponte ferroviario (Tongjiang-Nizhneleninskoye) è entrato in funzione nel novembre 2022. Questi attraversamenti hanno trasformato il fiume da fossato in arteria principale, facilitando il movimento di persone, legname, minerali e beni di consumo in entrambe le direzioni. La Cina sta quindi «conquistando» l’Estremo Oriente russo? Non con i carri armati, ma attraverso economia, infrastrutture e un’influenza sottile che avvicina la regione più a Pechino che a Mosca. Questo fenomeno riflette dinamiche più generali nella Russia orientale, un vasto territorio che si estende dal lago Baikal al Pacifico, coprendo oltre 13 milioni di chilometri quadrati, ovvero il 77% del suolo russo. Lungi dall’essere una tundra desolata, è una potenza in termini di risorse, che da secoli attira gli sguardi avidi delle grandi potenze. Le sue ricchezze energetiche sono leggendarie: immense riserve di petrolio e gas convogliate attraverso oleodotti come la linea Siberia orientale-Oceano Pacifico (Espo), che pompa greggio direttamente verso la Cina, e la Forza della Siberia-1, che fornisce gas alla Cina in base a un contratto trentennale avviato nel 2019.

Abbondano anche i minerali: oro, palladio e terre rare critiche per un totale di 658 milioni di tonnellate metriche in 29 tipi, secondo il Ministero delle risorse naturali russo nel febbraio 2025. La Siberia fornisce più della metà del palladio mondiale, essenziale per catalizzatori automobilistici ed elettronica. Sopra il suolo, le foreste boreali offrono legname per l’esportazione, mentre terreni agricoli in affitto producono soia per i mercati cinesi.
Le coste del mare di Okhotsk e del Pacifico sono miniere d’oro per la pesca, con salmoni, merluzzi e granchi: le flotte russe hanno catturato oltre 330.000 tonnellate metriche di solo merluzzo entro febbraio 2025, con scienziati che propongono una quota di 2,42 milioni di tonnellate per il 2026. Questa regione rappresenta una fetta significativa della produzione ittica globale, storicamente intorno al 10%, sebbene le cifre varino con le quote e il clima. Strategicamente, la geografia della Russia orientale – confinante con Cina, Mongolia, Corea del Nord e Pacifico – la rende più vicina a Pechino o Tokyo che a Mosca, trasformandola in una vulnerabilità frontaliera per la Russia e in un premio per l’influenza altrui.

L’approccio di Pechino non è una conquista palese, ma un’infiltrazione paziente portata avanti con oleodotti e soldi. Nel settore finanziario, lo yuan domina, specialmente dopo l’entrata in vigore delle sanzioni occidentali per la guerra in Ucraina: oltre il 95% del commercio Russia-Cina si regola in yuan o rubli, una cifra stabile nel 2025 nonostante un calo del 9% nel volume complessivo a 106,48 miliardi di dollari nella prima metà. Questo rende la Russia un banco di prova per lo yuan, ma la cautela delle banche cinesi sulle sanzioni secondarie statunitensi conferisce a Pechino un potere simile a un veto, bloccando pagamenti quando conveniente.
Il commercio racconta una storia simile. Le marche automobilistiche occidentali sono fuggite dopo le sanzioni, e i veicoli cinesi hanno colmato il vuoto, conquistando una quota di mercato del 55-57% nella prima metà del 2025, in lieve calo dal 60% del 2024 a causa degli aumenti dei dazi e delle «tasse di riciclo» imposti da Mosca per proteggere i produttori locali. Elettronica, macchinari e beni di consumo seguono a ruota, inondando gli scaffali russi con etichette «Made in China». Foreste, fattorie e pesca approfondiscono il legame: aziende cinesi affittano vasti terreni nel Territorio di Zabaykalsky, sfruttano concessioni per il legname e le loro flotte dominano le catture nel Pacifico, lavorandole a sud e creando dipendenze nella sicurezza alimentare.

Per i governatori locali russi, questo non è un problema: è questione di sopravvivenza. La trascuratezza decennale di Mosca verso la regione risale all’era post-sovietica, quando il crollo della pianificazione centralizzata ha innescato gravi dislocazioni economiche e un esodo demografico drammatico. Dal 1991, l’Estremo Oriente russo ha perso oltre un quarto della popolazione, scendendo da circa 8 milioni a circa 6 milioni negli anni 2010. Questa emorragia demografica è stata alimentata da cronica mancanza di investimenti del governo centrale, che ha portato a infrastrutture fatiscenti, servizi sanitari, educativi e di trasporto inadeguati, rimasti sottofinanziati e sottosviluppati, specialmente nella Siberia orientale e nell’Estremo Oriente. Molti abitanti lamentano il fatto che Mosca privilegi le regioni occidentali, trattando l’Estremo Oriente come una periferia remota, nonostante le sue ricche risorse, aggravando problemi come alti costi di vita, climi rigidi e opportunità lavorative limitate che spingono la migrazione verso ovest, in città come Mosca o San Pietroburgo.

Iniziative come incentivi per il reinsediamento di russi etnici verso est si sono rivelate insufficienti, e le infrastrutture vanno in rovina. Per cui gli amministratori locali cercarno un’alternative nella Cina, che offre soldi, manodopera e progetti. Imprenditori cinesi costruiscono strade, agricoltori coltivano terre e banche concedono crediti. Il risultato: una regione economicamente più allineata con Harbin che con il Cremlino.

Tutto questo si inserisce nella strategia del Partito comunista cinese: la Russia orientale garantisce petrolio, gas e metalli, e permette di aggirare vulnerabilità marittime come lo stretto di Malacca, dove è forte la potenza navale statunitense.
Ma la Russia è anche un laboratorio per l’internazionalizzazione dello yuan, con il 95% del commercio bilaterale in valute locali che prova il modello per i partner della Belt and Road. La dipendenza espande l’influenza: prestiti e infrastrutture riecheggiano schemi in miniere africane o accordi petroliferi latinoamericani, preservando la sovranità formale mentre dettano condizioni. Legami più profondi separano la Russia dall’Occidente, impedendo qualsiasi disgelo che potrebbe riorientare Mosca.
Ma Cina e Russia non sono alleati naturali. La storia è costellata di scontri: la rottura sino-sovietica degli anni Sessanta culminò nelle schermaglie del fiume Ussuri nel 1969, quando Mosca valutò opzioni nucleari. La Russia si espanse verso est come colonizzatore; la Cina ricorda le perdite territoriali dell’era Qing tramite trattati ineguali. Le visioni del mondo divergono: la Russia come impero assediato in cerca di cuscini, la Cina come regime comunista che sfrutta l’economia. L’attuale partnership è pragmatica, nata dall’isolamento russo, ma fragile e squilibrata.

 

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