L’epidemia di solitudine in America è un fatto noto. Abbiamo visto, studio dopo studio, confermare ciò che molti avvertono nel profondo: sempre più persone si sentono isolate, distaccate e in difficoltà nel trovare un senso alla propria vita. Gli americani più anziani spesso attribuiscono questo fenomeno alla tecnologia o alle ferite sociali lasciate dal Covid. Non hanno del tutto torto, ma c’è di più. Il vero responsabile non sono solo i telefoni, gli schermi o persino internet. Il vero motore di questa nuova solitudine sono gli algoritmi: regole e processi invisibili che oggi governano il nostro modo di vivere, di connetterci e persino di pensare. Potrebbe sembrare un concetto astratto, ma non lo è. Gli algoritmi sono la presenza silenziosa che modella il nostro flusso di notizie, suggerisce il prossimo acquisto, decide quale candidatura lavorativa esaminare e filtra i post che vediamo da familiari o amici. Non ti mostrano semplicemente il mondo: decidono quale mondo tu veda. E la cosa più importante da comprendere è che gli algoritmi non hanno influenzato ogni generazione allo stesso modo. I baby boomer e molti appartenenti alla generazione X ricordano la vita prima degli algoritmi. Sono cresciuti con la solitudine come parte normale dell’esistenza: lunghe passeggiate, tempo passato da soli con i libri, serate senza distrazioni. Le loro vite sociali erano locali e concrete. Se si sentivano soli, era una solitudine ordinaria, quella che poteva spingere qualcuno a telefonare a un amico, iscriversi a un circolo o semplicemente fare una passeggiata.
I millennial sono diventati adulti mentre gli algoritmi entravano nelle loro vite attraverso l’ascesa dei social media e degli smartphone. Per loro, il cambiamento è stato graduale. Ricordano ancora infanzie analogiche, ma le loro vite adulte sono diventate sempre più legate ai dispositivi. Hanno imparato a navigare tra i due mondi, a volte con nostalgia per la vita prima degli algoritmi, senza però riconoscerli come la nuova forza trainante delle loro esistenze.
La generazione Z e la generazione Alpha, invece, non hanno mai conosciuto una vita senza algoritmi. Fin dall’infanzia, le loro identità, amicizie e persino il senso di sé sono stati modellati all’interno di sistemi progettati per massimizzare l’engagement. Sono la generazione più connessa della Storia e, paradossalmente, la più sola. Gli studi confermano che riportano livelli più alti di isolamento e depressione rispetto a quelli che i loro genitori o nonni dichiaravano alla stessa età. Per loro, la solitudine è quasi inconcepibile. Le ore di sonno si sono ridotte, e quelle di veglia sono saturate da spinte algoritmiche, richieste di performance e confronti invisibili.
Ecco perché incolpare «i telefoni» o «la tecnologia» non coglie il punto. Un telefono è solo uno strumento. La causa profonda dell’epidemia di solitudine odierna, è il sistema di algoritmi che opera su quei dispositivi e governa silenziosamente le vite condotte attraverso di essi.
Essenzialmente gli algoritmi sono semplici istruzioni, regole per risolvere un problema. Una ricetta è un algoritmo. Il programma dei pasti della settimana e le decisioni che portano a ogni scelta di ingrediente o ordine di cibo sono un algoritmo. Un sistema Gps che calcola il percorso più veloce da casa tua alla tua casa vacanze estiva è un algoritmo. Ma nell’ecosistema digitale di oggi, gli algoritmi sono molto più di ricette o mappe. Sono sistemi adattivi e apprendenti. Gli algoritmi si nutrono di enormi bacini di dati: tutto, dalle tue abitudini di acquisto alla cronologia delle ricerche, fino alla pausa misurata e minuscola che fai quando scorri oltre un video. Confrontano quei dati con miliardi di altri utenti e poi prevedono cosa sei più propenso a cliccare, guardare, comprare o credere. E poiché questi sistemi sono costruiti da aziende che traggono profitto dalla tua attenzione, gli algoritmi non sono neutrali. Sono progettati per tenerti agganciato, sia mostrandoti una pubblicità, un dibattito o un flusso video calibrato con cura.
L’effetto è sottile ma incessante: invece di usare tu la tecnologia, è la tecnologia che usa te. Questo è il motivo profondo dell’epidemia di solitudine. Non sono i dispositivi in sé, ma la logica algoritmica che trasforma ogni interazione umana in una transazione di impegno.
Per comprendere la portata di questo sistema, dobbiamo capire come gli algoritmi interagiscano con big data e l’intelligenza artificiale. A me piace pensarlo in questo modo: I big data sono la materia prima. Si tratta del flusso massiccio di informazioni generato da miliardi di persone ogni secondo, come testi, clic, segnali Gps, acquisti online e così via. La data science è la disciplina che interpreta quel flusso di informazioni, usando modelli statistici per trovare pattern e previsioni. L’intelligenza artificiale è l’insieme di sistemi che agiscono su quei pattern: generano risposte, guidano auto, traducono lingue, diagnosticano malattie. E a intrecciare tutto questo ci sono gli algoritmi. Sono il tessuto connettivo che dirige come i dati fluiscano, come i pattern vengano riconosciuti e come l’Ia risponda. Questo sistema è più grande di qualsiasi singola app o gadget. Non è solo “social media” o “smartphone”: è un corpo. Un corpo digitale, vivente, che tocca ogni aspetto delle nostre vite.
La portata e la complessità di questo sistema non sono facili da cogliere. Possiamo comprendere dei pezzi, ma è quasi impossibile vedere l’immagine intera. Usare il corpo umano come analogia fornisce un quadro familiare che rende visibile l’invisibile.
- Sangue = Big data. Ogni clic, scorrimento e segnale Gps è una goccia nel flusso sanguigno digitale. Circola all’infinito, nutrendo ogni organo.
- Cervello = Data science. Come la corteccia, la data science interpreta i segnali, dando priorità ad alcuni e ignorandone altri.
- Muscoli e nervi = Ia. L’intelligenza artificiale esegue azioni, reagisce al mondo, impara attraverso la ripetizione.
- Tendini = Algoritmi. Proprio come i tendini è il tessuto connettivo che lega il corpo, gli algoritmi collegano ogni sistema, invisibili ma essenziali.
- Scheletro = Infrastruttura. Le ossa sono i server, i chip e i sistemi cloud che tengono in piedi la struttura.
- Ormoni = Finanziamenti miliardari. Il denaro agisce come ormoni della crescita, dirigendo dove e come il corpo cresca.
- Sistema immunitario = Regolamentazione ed etica. Governi e organismi di vigilanza cercano di mantenere il sistema sano, ma sono lenti rispetto al ritmo di crescita.
Questa non è una metafora casuale: pensare alla tecnologia come a un corpo ci aiuta a vedere l’interdipendenza di dati, algoritmi, intelligenze artificiali, finanziamenti e infrastrutture Non sono silos separati: sono sistemi che lavorano insieme, coordinati e integrati. Sono un organismo unitario, che ha un potere enorme. Chi guida questo “corpo digitale”? Il corpo digitale non cresce nel vuoto: è modellato dall’ambizione umana, dal potere istituzionale e dal denaro che alimenta la sua espansione.
Matematici e statistici pongono le teorie che diventano il suo codice nascosto, mentre ricercatori e ingegneri trasformano quelle teorie in sistemi che ora operano su scala planetaria. Le corporation poi portano questi sistemi nella vita quotidiana, incorporandoli in banca, nella medicina, nell’intrattenimento e nei servizi governativi fino alla totale pervasività.
Al vertice di questa piramide, una manciata di miliardari agisce sia come finanziatori sia come architetti. Elon Musk, Bill Gates, Jeff Bezos, Mark Zuckerberg e Peter Thiel non si limitano a finanziare la ricerca: ne dirigono la traiettoria. Il loro denaro determina quali progetti prosperino, quali scompaiano e quali valori siano incorporati nelle basi. Dagli avvertimenti di Musk sui rischi esistenziali abbinati alle sue stesse imprese concorrenti, alla spinta di Gates a integrare l’Ia nella sanità e nell’istruzione, all’insistenza di Zuckerberg sull’accesso “aperto” all’Ia (mantenendo però l’accesso dipendente dalle sue piattaforme) al controllo di Bezos sul cloud su cui quasi ogni startup di intelligenza artificiale si appoggia, fino all’enfasi di Thiel sul dominio militare e di intelligence, le loro priorità fissano la rotta per tutti noi.
I governi affermano di agire come contrappeso, ma i fatti dicono il contrario. Le regolamentazioni arrivano anni dopo, prive di forza o compromesse, mentre le agenzie pubbliche stesse dipendono sempre più dagli stessi sistemi che dovrebbero arginare. In pratica, molti governi hanno scelto l’accelerazione anziché la responsabilità, barattando il controllo per un vantaggio a breve termine. Il risultato è netto: questo corpo non è guidato dalla volontà democratica o dalla coscienza collettiva, è guidato dal potere concentrato in pochi soggetti, spinto dalle loro visioni personali, e nutrito dai dati di miliardi di persone che non hanno mai dato un reale consenso al loro trattamento
L’umanità ha affrontato momenti di massiccia trasformazione sociale in passato. La Rivoluzione industriale ha ristrutturato il lavoro, sradicato comunità e riempito le città di opportunità e disperazione. L’era nucleare ha dato all’umanità armi così distruttive che intere dottrine di deterrenza hanno dovuto essere inventate per salvare la civiltà. Ma la trasformazione odierna è diversa perché colpisce al cuore il senso stesso di essere “umani”. Non avevamo mai avuto una rivoluzione industriale che portasse la solitudine giovanile a livelli epidemici. I giovani adulti oggi hanno il doppio delle probabilità rispetto agli anziani di definirsi “soli”. Non abbiamo mai avuto una rivoluzione tecnologica coincidente con i tassi più alti di suicidi giovanili mai registrati: secondo la Sanità, i suicidi tra gli americani di età compresa tra 10 e 24 anni sono aumentati del 62 percento dal 2007 al 2021.
A differenza del passato, dove le macchine amplificavano le nostre capacità fisiche, questa rivoluzione afferma di amplificare quelle mentali. Eppure, pur promettendo di espandere la nostra intelligenza, ha ristretto la nostra attenzione, aumentato la nostra solitudine e ignorato i nostri bisogni umani più basilari. Nessuna epoca precedente di invenzioni ci ha detto che le nostre vite interiori – i nostri pensieri, i nostri desideri, i nostri silenzi – potevano essere ridotti a punti dati, impacchettati, analizzati e monetizzati. E a differenza degli sconvolgimenti passati, dove i governi si affannavano a erigere barriere, questa volta tendono a farsi da parte. Nel frattempo, i costi umani si accumulano, e il sistema immunitario della coscienza che un tempo garantiva la sopravvivenza della società funziona a malapena. Questa non è semplicemente un’altra rivoluzione: è un fenomeno sociale mai visto nella Storia.
Per la prima volta, viviamo all’interno di un sistema che non possiamo vedere per intero, gestito da stakeholder che non conosciamo, modellato da algoritmi che freddamente ci spogliano della nostra individualità. Non siamo solo lavoratori che si adattano a nuove macchine: siamo esseri umani ridisegnati in base ai dati, disumanizzati all’interno di un corpo che cresce senza di noi.
Ecco perché dobbiamo costringerci a vedere il corpo nella sua interezza. Non solo app o dispositivi. Non solo miliardari o aziende. Ma l’organismo completo: sangue, cervello, tendini, scheletro, muscoli, ormoni e le forze silenziose che lo spingono. Solo allora possiamo comprendere perché la solitudine sia diventata epidemica, perché i giovani (il nostro futuro) lottino sotto pressioni che le generazioni precedenti non hanno mai conosciuto e perché l’umanità stessa si senta inquieta. Non possiamo continuare a liquidare questi danni come effetti collaterali di «nuova tecnologia». Sono l’esito naturale di un sistema che si nutre dei nostri dati, ci riduce ad astrazioni. Se non riconosciamo questo corpo per quello che è, continueremo a vivere come tessuti passivi al suo servizio anziché come persone con dignità, libero arbitrio e coscienza. Il corpo digitale è qui. È potente, in rapida crescita e in gran parte invisibile. La domanda è se rimarremo tessuto passivo al suo interno o se riaffermeremo la nostra umanità ed esigeremo un corpo che serva noi. E non il contrario.
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