Come le aziende stanno reagendo ai dazi

di Redazione ETI/Andrew Moran
9 Luglio 2025 19:11 Aggiornato: 10 Luglio 2025 9:50

Sono trascorsi tre mesi da quando Donald Trump ha annunciato il suo piano di dazi su scala planetaria, scuotendo le fondamenta del commercio internazionale. In questo periodo di incertezza, le imprese hanno reagito con prontezza, rivedendo i prezzi e riorganizzando le catene di approvvigionamento.

Subito dopo aver introdotto reciproci sui partner commerciali degli Stati Uniti, il presidente degli Stati Uniti ha stabilito una scadenza di 90 giorni, applicando un dazio universale di base del 10 percento. Questo ha concesso alle aziende un margine di tempo per adattarsi alle nuove dinamiche. L’attenzione di tutti era rivolta al 9 luglio, ma durante il fine settimana del 4 luglio Trump ha annunciato la proroga della scadenza al 1° agosto, consentendo ai funzionari della sua amministrazione di finalizzare le trattative «in buona fede». Trump ha siglato le prime intese con Regno Unito, Cina e Vietnam, e ha notificato a diverse altre nazioni, tra cui Giappone e Corea del Sud, l’applicazione di dazi in doppia cifra.

Dalla diversificazione delle filiere all’accelerazione delle importazioni, le aziende si sono preparate al peggio sperando nel meglio: «I dazi, insieme a temi come immigrazione e deregolamentazione, creano molteplici incertezze. Tutti stanno cercando di capire quali saranno le aliquote, come influenzeranno l’inflazione sui prodotti al dettaglio e, soprattutto, quanto dureranno», ha dichiarato a Epoch Times Usa Jack Kleinhenz, capo economista della National Retail Federation.
Negli ultimi mesi, la gestione delle catene di approvvigionamento e la dinamica dei prezzi sono state al centro delle strategie aziendali. Alcune imprese hanno annunciato apertamente l’intenzione di aumentare i prezzi, mentre altre hanno dichiarato di voler assorbire i costi legati ai dazi. Molte aziende di minori dimensioni si trovano a barcamenarsi tra il rischio che comporta alzare i prezzi e il peso di pagare di tasca propria i dazi e lasciare i prezzi invariati. Secondo la Federal Reserve, i dazi stanno esercitando «una pressione al rialzo su costi e prezzi» ma «le risposte a questi costi crescenti variano: alcune aziende aumentano i prezzi solo sui prodotti colpiti, altre su tutto il catalogo, altre ancora riducono i margini di profitto o introducono sovrattasse temporanee» dice un rapporto della Banca Centrale americana.

Lo scorso mese, gli economisti della Federal Reserve di New York hanno riferito che la maggior parte delle aziende sta trasferendo almeno una parte dei costi doganali sui clienti. Uno studio della Fed di Atlanta ha stimato che, se i costi fossero interamente trasferiti, i prezzi al dettaglio potrebbero aumentare fino all’1,6 percento. In primavera, Walmart – la più grande catena di ipermercati al mondo – ha dichiarato di essere pronta ad aumentare i prezzi: «noi faremo del nostro meglio per mantenere i prezzi più bassi possibile, ma l’entità dei dazi, anche ai livelli ridotti annunciati questa settimana, non ci consente di assorbire tutto l’impatto, considerando i margini ristretti del settore retail» ha spiegato l’amministratore delegato Douglas McMillon in una chiamata con gli investitori. Kimberly-Clark, colosso che controlla marchi come Scott e Kleenex, ha invece riferito che la maggior parte delle sue operazioni è basata negli Stati Uniti, il che la rende meno esposta.

Finora, l’inflazione legata ai dazi non si è riflessa nei dati economici. Ma gli addetti ai lavori prevedono che gli effetti dei dazi si manifesteranno quest’estate, soprattutto quando le scorte si esauriranno e le aziende acquisteranno di più dall’estero. Ciononostante, le aspettative di inflazione del pubblico si sono stabilizzate, tornando ai livelli pre-dazi. L’ultimo sondaggio della Federal Reserve di New York sulle aspettative dei consumatori ha mostrato che l’outlook inflazionistico a un anno è sceso a un minimo di cinque mesi del 3 percento a giugno, rispetto al 3,2 percento di maggio.

Prima dell’annuncio del 2 aprile, i dati sulle spedizioni rivelavano che le aziende stavano già anticipando le importazioni per evitare i dazi. Ma le imprese non si sono limitate ad accelerare gli acquisti dall’estero: hanno anche iniziato il riorientamento delle filiere abbandonando la Cina. Uno studio recente di Allianz Trade ha rilevato che il 60 percento delle aziende esportatrici negli Stati Uniti, in Europa e in Asia sta spostando le proprie catene di approvvigionamento verso l’America Latina e l’Europa occidentale e «L’America Latina sta emergendo come vincitrice».

Un sondaggio di aprile della società di software B2b Zilliant ha mostrato che il 42 percento delle aziende statunitensi sta cambiando fornitori o regioni di approvvigionamento. Apple prevede un impatto doganale di 900 milioni di dollari nel trimestre corrente, per cui sta spostando la produzione di iPhone destinati agli Stati Uniti dalla Cina a India e Vietnam. A maggio, però, Trump ha avvertito Apple che avrebbe dovuto pagare dazi del 25 percento o più per gli iPhone prodotti al di fuori degli Stati Uniti, dicendo chiaro e tondo all’amministratore delegato Tim Cook: «Non voglio che produciate in India». Numerose aziende, sia statunitensi che straniere, hanno annunciato piani per investire maggiormente nella produzione interna, dalle Case automobilistiche estere ai giganti tecnologici multinazionali.

In tutto questo, un fatto è certo: il Covid prima e – soprattutto – i dazi ora, stanno costringendo le aziende a rafforzare la diversificazione e la resilienza delle proprie catene di approvvigionamento. Ma soprattutto, i dazi stanno costringendo le imprese a essere molto più lungimiranti: a smettere di farsi allettare dai costi di produzione (apparentemente) irrisori garantiti dall’economia del regime comunista cinese. In questo senso, la terapia d’urto imposta da Donald Trump all’intera economia mondiale potrebbe essere, come ha detto lui stesso, un’ottima medicina: al momento ha un sapore pessimo, ma poi ti fa guarire.


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