Il paradosso della crisi tedesca: troppa “politica” e poca razionalità

14 Settembre 2025 17:47 Aggiornato: 14 Settembre 2025 17:47

La “Locomotiva ‘Europa” arranca sempre di più. Nel secondo trimestre dell’anno in corso, la Germania è tornata in zona recessione: il Pil ha registrato una flessione dello 0,1% tra aprile e giugno, vanificando l’accelerazione inattesa (0,3% di crescita) dei primi mesi. Lo dice un rapporto diffuso il 25 agosto dalla società di consulenza Kpmg. Un fragile recupero dell’industria non riesce a dissimulare tensioni strutturali profonde, tra cui spiccano l’aumento della disoccupazione e la stagnazione produttiva. Queste pressioni inducono Berlino a ripensare la propria strategia economica, al punto di valutare l’allentamento del vincolo costituzionale sul debito, per concedere maggiori margini di manovra fiscale, e si punta su una nuova ondata di investimenti pubblici e privati attraverso il programma “Made for Germany”.

Il gruppo tedesco Continental (pneumatici) ha annunciato la chiusura di ben quattro stabilimenti in Germania, la riduzione di altri due e il progressivo trasferimento della produzione all’estero. Risultato: oltre 7 mila nuovi disoccupati. Il colosso tecnologico Siemens, a marzo, ha comunicato il taglio di 5.600 posti di lavoro di cui 2.600 in Germania, a fronte di una contrazione della domanda.
Ma è l’intero tessuto produttivo tedesco a apparire in crisi: le insolvenze hanno raggiunto il massimo decennale nella prima metà del 2025, con quasi 11.900 fallimenti. Le imprese si pagano il prezzo di costi (innanzitutto energetici) elevati, domanda in calo e una certa “incertezza” diffusa rispetto alla transizione ecologica in cui tanto ardentemente la Germania ha creduto (e della cui oggettiva irrazionalità ora paga il prezzo).

Per decenni, il successo economico tedesco era stato sostenuto da tre fattori principali: importazioni energetiche a basso costo, una industria automobilistica dominante e una disciplina fiscale incarnata dalla regola del “Black Zero”, che impone il pareggio di bilancio. Ognuno di questi pilastri risulta, oggi, o è crollato o sta per crollare.

L’ENERGIA

Il conflitto in Ucraina ha esposto la drammatica dipendenza tedesca dal gas russo (come Donald Trump, nel suo primo mandato, aveva ampiamente previsto, nell’ilarità generale dei “decision maker” tedeschi). I prezzi dell’energia si mantengono instabili, condizionati dall’andamento dei mercati del gas e dall’incertezza politica. E la Germania, diversamente dall’Italia – che ha compensato del tutto il gas russo con le importazioni da Algeria e Azerbaigian – non ha molte alternative, se non comprare Gnl dagli Stati Uniti. A questo si somma la scelta del governo Merkel, nel 2011, di porre termine alla produzione di energia elettrica da fonte nucleare entro il 2022, politica poi portata a compimento dal cancelliere Scholz nel 2023.
Con il ricorso alle fonti rinnovabili e al gas importato per colmare il fabbisogno, Berlino punta ora a coprire l’80% del fabbisogno elettrico con energie “verdi” entro il 2030 e a raggiungere la neutralità climatica entro il 2045. Le rinnovabili restano al centro della strategia politica, sostenuta dalla coalizione del cancelliere Friedrich Merz, ma la transizione impone costi considerevoli. E a pagarli sono i tedeschi.

Secondo le stime della Camera di Industria e Commercio tedesca, i costi potrebbero raggiungere i 5.400 miliardi di euro entro il 2049. «Le politiche attuali rischiano di indebolire le fondamenta della nostra economia», osserva il presidente della Camera di Industria e Commercio, Peter Adrian.
I dati dell’Agenzia internazionale per l’energia attestano che nel 2025 la Germania ha sopportato prezzi medi dell’elettricità superiori a quelli di Francia, Giappone, India, Australia, Stati Uniti, Paesi nordici e alla media europea. La previsione indica prezzi ancora più alti nel 2026.
L’economista Markus Krall ha dichiarato a The Epoch Times Usa: «La Germania è passata dalla dipendenza dall’energia a basso costo ad avere, oggi, le tariffe più alte tra le economie industrializzate». Krall rileva che tale cambiamento è dovuto non solo alla guerra in Ucraina, ma anche/soprattutto a scelte politiche interne che «hanno deliberatamente reso più oneroso il costo dell’energia, ignorando le ricadute macroeconomiche». Tradotto: la (cosiddetta) “energia verde” costa troppo, è anti-economica. E la sua imposizione dogmatico/ideologica sta contribuendo a portare alla rovina quella che un tempo era l’economia più forte d’Europa.

D’altronde i fatti parlano chiaro: la progressione annua del Pil tedesco è rallentata, passando dal 3,7% del 2021 (che non fa testo, perché è l’anno del “rimbalzo” del dopo-Covid) a una contrazione dello 0,2% nel 2024. Gli ultimi dati indicano ulteriori segnali di debolezza nel secondo trimestre 2025. L’Ifo Institute di Monaco ha rilevato che produzione industriale e esportazioni hanno beneficiato temporaneamente degli ordini statunitensi nel primo trimestre, ma sono calati nel periodo successivo. L’Ifo Institute stima una crescita tedesca dello 0,2% per il 2025; Kpmg prevede un Pil fino allo 0,4%.

Nel rapporto pubblicato il 4 settembre, l’istituto osserva che gli investimenti delle aziende mostrano una lieve ripresa, mentre il settore edilizio resta in recessione e le famiglie tardano a riprendere i consumi. E questo non stupisce: la fiducia dei consumatori tedeschi è scesa per il terzo mese consecutivo a settembre, mentre le vendite al dettaglio sono diminuite dell’1,5% tra giugno e luglio, smentendo le previsioni.
«Il reddito disponibile per il cittadino medio si riduce, e repentinamente», avverte Krall, attribuendo il fenomeno in parte al rallentamento della produzione e all’incremento demografico.
In tutto questo, in Germania la disoccupazione è in crescita e la creazione di nuovi posti ristagna, mentre un’inflazione sostanzialmente stabile (e forse un po’ troppo bassa) cela, secondo le statistiche ufficiali, segnali di debolezza dell’industria nazionale.
Kpmg evidenzia come i primi due trimestri dell’anno siano stati influenzati dalla politica dei dazi statunitensi, con gli esportatori tedeschi (auto e macchinari inclusi) penalizzati dall’inasprimento dei costi e da cambiamenti nei flussi commerciali. Secondo Krall, però i dazi aggravano le difficoltà della Germania, ma «non ne rappresentano la causa principale». Normalmente, «l’industria tedesca riuscirebbe ad assorbire l’urto» ma «nell’attuale contesto, questo non succede».

IL SETTORE AUTO

Gli economisti sono concordi: il comparto automobilistico — per decenni motore della crescita attraverso marchi come Volkswagen, Bmw, Daimler e Porsche — mostra segnali di sofferenza, sotto la pressione della concorrenza delle imprese di veicoli elettrici e delle nuove tecnologie digitali. Volkswagen ha comunicato l’intenzione di valutare la chiusura di alcune fabbriche, di fronte all’aggressività dei produttori cinesi di veicoli elettrici, venduti a prezzi stracciati.

Automobili e componenti rappresentano ancora il 17% dell’export nazionale, in calo rispetto al 19% del 2016. Il passaggio di Porsche dall’indice Dax al Mdax evidenzia le difficoltà del settore. «I vantaggi competitivi dell’industria automobilistica tedesca erano legati al motore a combustione», spiega Clemens Fuest, presidente dell’Ifo Institute. «Oggi ci troviamo di fronte a un cambiamento tecnico radicale e la competizione si fa più intensa. È plausibile che il settore non riesca più a funzionare da traino economico». Fuest suggerisce di puntare sulla diversificazione rispetto ai tradizionali campioni nazionali, notando che l’uscita di Porsche dal Dax e il calo delle azioni dei costruttori manifestano il mutato clima sui mercati: «I decisori politici non dovrebbero favorire singoli vincitori, ma creare condizioni migliori per l’attività imprenditoriale». La domanda di vetture elettriche è insufficiente e non esiste un vero mercato dell’usato. E questa situazione «è imposta dalla politica» dice Krall.

In questo quadro, a dir poco tetro, il cancelliere tedesco Merz, scommette la propria carriera politica su una maggiore flessibilità fiscale. A marzo, il governo ha riformato il vincolo sul debito in Costituzione, escludendo dalla soglia la spesa per la difesa eccedente l’1% del Pil e istituendo un fondo da 500 miliardi di euro per infrastrutture ed energie verdi. A giugno, il Parlamento ha approvato un pacchetto di agevolazioni da 46 miliardi di euro, l’accelerazione degli ammortamenti fiscali per le imprese e una manovra che ridurrà progressivamente l’aliquota dell’imposta sulle società dal 15 al 10% entro il 2032 (meno tasse alle imprese, quindi: la ricetta per la ripresa, in fondo, non è molto complicata). «Stiamo dando nuovo impulso all’economia con il nostro pacchetto per la crescita», ha dichiarato il ministro delle Finanze Klingbeil in luglio. «Rendiamo la Germania più competitiva a livello internazionale quale sede produttiva».

Le forze d’opposizione, critiche verso l’allentamento della disciplina di bilancio, hanno contestato la riforma del debito in sede giudiziaria e i Verdi hanno denunciato la carenza di garanzie per la tutela ambientale.
Thorsten Polleit, docente di Economia all’Università di Bayreuth e direttore della Boom & Bust Report, ha dichiarato a The Epoch Times Usa che l’iniziativa governativa non favorisce la crescita e conduce invece a «sprechi e corruzione».
«Quello che serve davvero è una maggiore libertà economica, più spirito imprenditoriale e investimenti, non una crescita della spesa pubblica», afferma Polleit.

Ma Merz ha sottolineato che le riforme «gettano le basi per creare nuovi incentivi agli investimenti», salutando con favore la nascita dell’iniziativa Made for Germany, lanciata da 61 grandi aziende tra cui Siemens, Deutsche Bank, Bmw e Airbus. Queste società si impegnano a investire 631 miliardi di euro entro il 2028. Merz ha definito tale cifra «un segnale importante di rinnovata fiducia degli investitori», aggiungendo trionfante che «la Germania è tornata protagonista». I sostenitori ritengono che questa spinta congiunta sia la migliore opportunità per recuperare un ruolo di primo piano nell’economia, specie nei settori della digitalizzazione e dell’intelligenza artificiale. Krall, tuttavia, sottolinea come si tratti di “impegni” per modo di dire: non sono vincolanti e dipendono da diversi fattori di mercato: «In sostanza, si tratta di un’affermazione positiva ma priva di fondamento reale» dice Krall suggerendo alla Germania di guardare anche al di fuori dell’Unione europea. Magari la Svizzera, che ha una tassazione più favorevole, una struttura burocratica snella e infrastrutture più efficienti.

A livello politico la raccogliticcia coalizione guidata da Merz deve fronteggiare il diffuso malcontento del popolo tedesco. Un sondaggio Infratest dimap per la rete pubblica Ard rivela un tasso di insoddisfazione del 75% nei confronti del governo federale, mentre solo il 21% della popolazione apprezza l’operato di Merz.
Le tensioni interne tra i partiti componenti, unite a un’opinione pubblica sempre più insoddisfatta per la gestione economica e sociale, stanno erodendo il consenso del governo. Questo clima di sfiducia è alimentato dalla stagnazione economica, dalla crescita della disoccupazione e dalla percezione di inefficacia delle misure attuate per rilanciare l’economia e migliorare la qualità della vita.

La coalizione, composta da Cdu-Csu e Sps, mostra delle crepe, in particolare a causa del malcontento di alcuni parlamentari che non hanno ottenuto i ruoli a cui ambivano. L’Spd, in quanto “partner di minoranza”, si è trovato in una posizione indebolita dopo il suo congresso. Gli osservatori ritengono che questo malessere potrebbe mettere a dura prova la già precaria coalizione, complicando la capacità del governo di portare avanti riforme incisive. In caso di crisi o caduta anticipata dell’esecutivo, la formazione di un governo realmente orientato alle riforme strutturali appare tutt’altro che scontata, vista la complessità dello scenario politico interno. E la continua contrazione economica, accompagnata dal rialzo della disoccupazione, rischia di mettere il governo Merz in grossi guai.

 


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