Che ne sarà della Cina dopo che i cinesi avranno cacciato il Pcc?

di Redazione ETI/Eva Fu&Frank Fang
22 Luglio 2025 20:46 Aggiornato: 23 Luglio 2025 7:04

La dittatura del Partito comunista cinese non sarà eterna. Tutt’altro: ormai potrebbe crollare in ogni momento. E gli Stati Uniti farebbero bene a guardare avanti: a iniziare a prepararsi per il giorno in cui la Cina sarà libera dalla tirannide del comunismo. Questo il messaggio arrivato da un recente evento organizzato dal think tank americano Hudson Institute. Un collasso improvviso del regime, infatti, potrebbe rivelarsi «estremamente complesso» da gestire, dice Miles Yu, ex consigliere del ministro degli Esteri della prima amministrazione Trump, Mike Pompeo, e direttore del China Center presso l’Hudson Institute. Decenni di dittatura lasceranno «cicatrici e fragilità istituzionali che potrebbero rappresentare un pericolo anche per il resto del mondo», per cui è meglio prepararsi allo stesso tipo di sfida che il mondo ha affrontato «dopo il crollo della Germania nazista, del Giappone imperiale o del comunismo sovietico in Europa orientale». In ognuno di questi casi, gli Stati Uniti si sono trovati a gestire la stabilizzazione dei Paesi coinvolti – seppure con diversi esiti – e a favorirne la transizione verso l’integrazione nella comunità internazionale. «In questo caso, però, la scala è molto più grande»

Secondo gli esperti intervenuti all’evento, la caduta del Pcc non è un’ipotesi remota. Anzi: la dittatura comunista cinese si trova oggi a fronteggiare una crescente crisi economica sul piano interno, un contesto internazionale ostile, la giusta ostilità della comunità internazionale per decenni e decenni di crimini contro l’Umanità, senza contare le normali guerre politiche interne al regime. All’inizio dell’anno, il Segretario generale del Pcc, Xi Jinping, è scomparso dalla scena pubblica per 14 giorni, saltando per la prima volta, e senza spiegazioni, il vertice dei Brics, e numerosi fedelissimi di Xi sono stati epurati; segnali che probabilmente indicano una sua forte perdita di potere. E d’altronde, «i regimi totalitari possono crollare in qualsiasi momento», ha osservato Miles Yu, sottolineando come il Pcc viva questa possibilità (o ineluttabilità) come un’ossessione costante: «ogni giorno, il partito vive nella paranoia».

Gordon Chang, esperto sinologo del think tank Gatestone Institute e autore del libro The Coming Collapse of China, concorda, osservando come i gerarchi comunisti siano ormai prossimi a cedere al panico: «in questo momento, il Partito comunista è in subbuglio. Se le lotte interne dovessero intensificarsi, nessuno può prevedere cosa accadrà» ha dichiarato Chang in un’intervista a The Epoch Times Usa; il cambiamento di regime potrebbe avvenire dall’alto verso il basso o dal basso verso l’alto, e  «ci sono un milione di modi in cui questo potrebbe accadere». Chang ha poi richiamato le proteste durate mesi in Cina alla fine del 2022, innescate dalla disperazione causata nella popolazione dalle durissime restrizioni anti-Covid, che hanno privato molti cittadini di cibo e medicinali essenziali, spesso rivelandosi letali quanto e più del Covid stesso: in alcune località, i manifestanti sono, incredibilmente, arrivati a chiedere in modo esplicito che il Partito comunista lasciasse il potere. «Il popolo cinese non è felice» osserva, lapalissianamente, Chang, e «il regime sta facendo enormi sforzi per tenere unita la Cina». La Repubblica Popolare Cinese quindi potrebbe sfasciarsi in ogni momento. E, come accaduto con la Germania Est e l’Unione Sovietica, il suo crollo probabilmente non sarà graduale, ma di schianto: «in questi casi succede così» osserva Gordon Chang.

All’atto pratico, secondo gli analisti, quando avverrà il collasso del Pcc gli Stati Uniti dovranno agire immediatamente per sequestrare gli asset cinesi presenti sul proprio territorio, a partire dalle banche, suggerisce Gordon Chang. Un rapporto di S&P Global Market Intelligence dell’aprile 2024 indica che le quattro banche più grandi al mondo per patrimonio siano di proprietà del regime cinese, e che la Industrial and Commercial Bank of China detenga asset per quasi 6 mila 700 miliardi di dollari, rispetto ai 4 mila miliardi della più grande banca statunitense, ovvero la JPMorgan Chase.
Le riserve valutarie cinesi, secondo dati ufficiali di maggio, ammontavano a 3.280 miliardi di dollari (le più alte al mondo). E in caso di crollo, le fazioni in lotta per il potere in Cina potrebbero saccheggiare le banche per finanziare le proprie ambizioni politiche, o sfruttare le riserve valutarie per destabilizzare i mercati internazionali; per cui, in qualità di «garante ultimo della sicurezza finanziaria mondiale», le autorità federali degli Stati Uniti d’America dovrebbero sequestrare questi asset, contando sul fatto che altri Paesi seguano il loro esempio. Il ministero del Tesoro, inoltre, dovrebbe coordinarsi con le autorità dei paradisi fiscali per monitorare attività potenzialmente destabilizzanti. E non ci sono solo le banche: per garantire la sicurezza alimentare degli Stati Uniti, Chang suggerisce di assumere ad esempio il controllo di Smithfield Foods, il più grande produttore di carne suina statunitense, acquisito nel 2013 dal gruppo cinese WH.

Venendo al problema della transizione interna, gli esperti hanno indicato la necessità di ristrutturare e ridimensionare le forze armate cinesi e di processare i (numerosi) responsabili dei crimini contro l’Umanità commessi dalla tirannide comunista. Un altro tema cruciale è quale sistema immaginino i diversi gruppi etnici presenti sul territorio cinese. Secondo Nina Shea del Center for Religious Freedom presso l’Hudson Institute, Hong Kong e almeno tre delle cinque regioni autonome sotto il controllo del regime cinese (ossia Mongolia Interna, Ningxia e Xinjiang) potrebbero volere l’indipendenza. L’assimilazione culturale forzata in Mongolia Interna e Ningxia, insieme al genocidio nello Xinjiang, hanno ovviamente generato un’assoluta sfiducia verso qualsiasi nuova autorità centrale. Hong Kong, ad esempio, con la sua lunga esperienza democratica (recentemente stroncata dal Pcc), col suo alto livello di sviluppo e con la sua forte economia, sarebbe l’area “più pronta” a (ri)diventare autonoma, e forse a proclamarsi persino una nazione sovrana.

Per ogni regione che aspiri alla secessione quindi, secondo gli esperti, gli Stati Uniti dovrebbero valutare la fattibilità in base alla volontà della popolazione locale, alle condizioni regionali e a una serie di linee guida che, ovviamente, riflettessero anche gli interessi americani. Gli esperti hanno anche discusso l’ipotesi che la Cina possa trasformarsi in una sorta di Repubblica federale di Stati sul modello americano. Ma un serio ostacolo, in questo senso, sarebbe l’assenza di un sistema di valori e di ideali condiviso. In ogni caso, concludono gli analisti, «sarà il popolo» a plasmare il futuro della Cina post-comunista: «se vorranno una confederazione, bene; altrimenti, che diventino nazioni indipendenti» osserva Miles Yu. Perché il punto fermo dovrà essere solo uno: questa volta – per la prima volta nella (millenaria) Storia cinese – dovrà essere «il popolo a decidere».


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