«Chi è più colpevole, chi pecca per denaro o chi paga per peccare?» si chiedeva la monaca e poetessa messicana del XVII secolo, Suor Juana Inés de la Cruz. In teoria, la colpa dovrebbe dividersi equamente, dato che l’uno non esisterebbe senza l’altro, ma le questioni morali sollevate dalla prostituzione confondono da sempre scrittori e governi. Il film premio Oscar Anora, pur finendo in tragedia per la protagonista, suggerisce che, in certe condizioni, la vita di una prostituta possa essere «un glorioso ciclo di canti», per citare Dorothy Parker.
Il ritratto relativamente favorevole delle prostitute in film e letteratura serve a sfidare il pregiudizio negativo che quasi tutti nutrono istintivamente e a ricordarci la loro umanità condivisa. La censura si trasforma facilmente in crudeltà, motivo per cui alcuni, ad esempio sulle riviste mediche, insistono nel ribattezzare la prostituzione come «lavoro sessuale» e le prostitute «lavoratrici del sesso». Tuttavia, nessuno ha ancora fatto lo stesso con i protettori: non sono ancora diventati «manager del lavoro sessuale» nel linguaggio edulcorato di chi usa questi nuovi eufemismi.
Nella mia carriera medica ho avuto pazienti prostitute. Alcune avevano costruito vite più o meno rispettabili, dando ai figli una buona istruzione e cercando di impedire alle figlie di seguire le loro orme. Ma per lo più le loro esistenze erano squallide, segnate da violenza, sfruttamento continuo, disgusto per ciò che dovevano fare, povertà, dipendenza da droghe e, con l’età, guadagni sempre minori. Riecheggiano ancora nella mente le urla deliranti di una vecchia prostituta morente che, anche a 60 anni, si vendeva per una sigaretta. Alcuni, soprattutto intellettuali, sostengono che prostituirsi sia un diritto umano fondamentale: dopotutto, dicono, è il tuo corpo e ne fai ciò che vuoi. Ne ho discusso in un incontro con una sociologa, una donna piuttosto rigida e perbene, che aveva scoperto nei suoi studi che le prostitute apprezzavano quel lavoro per il salario relativamente alto, gli orari flessibili e la possibilità di decidere quanto lavorare. Per queste prostitute, diceva la ricercatrice, la prostituzione era un mestiere come un altro, solo migliore.
Nello stesso periodo vivevo in una strada elegante, vicino a un hotel per uomini d’affari, dove ogni sera un protettore portava in autobus prostitute da una città povera vicina. Le riconoscevo subito: drogate, malnutrite, invecchiate precocemente. Di felicità sui loro volti se ne vedeva poca, per usare un eufemismo. Il consiglio locale gestiva un servizio con un furgone bianco itinerante per portare loro caffè caldo e preservativi, alcuni dei quali finivano nei nostri giardini o nei tombini. Una vicina risoluta le cacciava insieme al loro protettore, ma solo verso un’altra zona della città, ha persino affrontato il protettore, che le ha puntato una pistola contro e lei gli ha detto di non essere ridicolo e di metterla via.
Si dice spesso che la prostituzione sia il mestiere più antico e di certo nessuna società è mai riuscita a eliminarla del tutto, portando alcuni a ritenere inutile tentare di intervenire. Come disse il poeta romano Orazio della natura: «anche se la scacci con un forcone, torna sempre». Ma in queste circostanze non fare nulla è impossibile: non agire significa fare qualcosa, ossia incoraggiarla. Ma cosa si dovrebbe fare? Sono stati tentati vari approcci. In Svezia, ad esempio, la prostituzione non è illegale per la prostituta, ma lo è per il cliente. A prescindere dai risultati, è ipocrita o almeno incoerente: è come legalizzare la produzione di fentanyl e criminalizzarne il consumo. Nei Paesi Bassi c’è il famoso, o famigerato, quartiere a luci rosse di Amsterdam. Lì la prostituzione è tollerata e si dice che la violenza contro le prostitute sia diminuita. Ma in che tipo di società le donne vengono esposte in vetrina, perché i clienti le osservino e poi le scelgano come le trote o i granchi tenuti nei ristoranti per i commensali? Spesso queste donne sono vittime di trafficanti e controllate da protettori, vivendo alla meglio come lavoratrici a contratto, alla peggio come schiave.
Tutto questo avviene in nome della riduzione del danno; e ovviamente tali abusi, più nascosti, sono commessi da criminali altrove, in altre giurisdizioni, sotto leggi diverse. Ma la qualità della vita migliora portando alla luce ciò che era celato? Gli abitanti di Amsterdam non la pensano così: il loro quartiere a luci rosse, con il sigillo di un’approvazione semi-ufficiale, è uno degli spettacoli più malinconici del mondo civile che io conosca. La vita non può essere vissuta interamente alla luce del sole in nome di una presunta onestà. In Gran Bretagna la prostituzione è legale, ma non lo è adescare clienti, il che è incoerente e irrealistico. Porta a un’applicazione arbitraria della legge e apre evidenti opportunità di corruzione per la polizia. Ma anche il divieto totale produce lo stesso effetto, dato che l’eliminazione completa si è rivelata impraticabile.
Tuttavia, la scelta non è tra una soluzione perfetta e nessuna soluzione. L’idea di riduzione del danno porta con sé danni propri, a volte intangibili, ma più grandi di quelli che dovrebbe mitigare. Come minimo, non dovremmo dipingere la prostituzione come divertente o affascinante. Ricordo una ragazza adolescente di solida famiglia borghese, intelligente e destinata a una carriera di successo, abbagliata dal presunto fascino e dal dramma della vita di strada. È scappata dalla sua vita confortevole ed è finita presto nelle mani di due spacciatori. L’hanno imprigionata e resa dipendente dall’eroina con iniezioni forzate, sperando di farne una prostituta in cambio di droga. Un giorno, però, l’hanno uccisa, o si è uccisa, con una dose eccessiva. Hanno chiamato un avvocato dei bassifondi per un consiglio e lui ha suggerito loro di disfarsi del corpo. No, la prostituzione non è un glorioso ciclo di canti.
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