Il 7 marzo, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha ammonito il Giappone a non interferire in che quelli che Pechino considera affari interni relativi a Taiwan. Secondo gli esperti, l’avvertimento aggiunge tensione a una dinamica già precaria nell’Indo-Pacifico, in cui Usa e Giappone stanno rivedendo le posizioni su Taiwan. E risponde al crescente allineamento tra Giappone e Usa e alle iniziative per distinguere Taiwan dalla Cina continentale.
Il Partito comunista cinese non ha mai governato su Taiwan, ma considera ugualmente una propria provincia ribelle, e non esclude l’uso della forza per ottenere quella che definisce «riunificazione» con la terraferma. A metà febbraio, il ministero degli Esteri statunitense ha revisionato il documento di verifica sulle Relazioni Usa-Taiwan, eliminando la frase «non sosteniamo l’indipendenza di Taiwan» e promettendo di appoggiare Taiwan nelle organizzazioni internazionali «dove applicabile». Nello stesso periodo, il Giappone ha annunciato che dal 26 maggio i cittadini giapponesi naturalizzati nati a Taiwan potranno indicarla come luogo d’origine al posto della Cina. Per anni, i taiwanesi in Giappone dovevano indicare la Cina come luogo di nascita, quindi alcuni osservatori definiscono questo cambio — chiamato «rettifica del nome» dai media taiwanesi — una svolta.
Il regime cinese non l’ha presa bene. Il ministero degli Esteri cinese ha bollato la decisione giapponese come un trucco meschino che interferisce negli affari, mentre il ministro della Giustizia nipponico Keisuke Suzuki ha respinto le critiche, definendola una questione interna di Tokyo. Gli analisti ritengono che il Pcc veda le mosse del Giappone come parte di una sfida più ampia alla sua autorità. Su Tzu-yun, direttore dell’Istituto per la Ricerca sulla Difesa e la Sicurezza Nazionale di Taiwan, spiega che il Giappone un tempo evitava di provocare il Pcc per mantenere la pace, ma ora non è più così: recentemente ha dichiarato a Epoch Times che Tokyo distingue più nettamente Taipei da Pechino, allineandosi a Washington.
Ho Szu-Shen, direttore del Centro di Studi su Giappone e Asia Orientale dell’Università Cattolica Fu Jen di Taiwan, concorda: la decisione giapponese legittima quello che molti taiwanesi desiderano da anni, cioè un’identità distinta dalla Cina continentale. La giornalista giapponese Yaita Akio si è detta sorpresa dalla tempistica, specie sotto il premier Shigeru Ishiba, ritenuto da alcuni più morbido verso la Cina rispetto a leader passati come il defunto Shinzo Abe, fermamente filotaiwanse. Akio ritiene che la situazione mostra come Giappone e Usa si stiano allontanando da Pechino e rafforzando i legami con Taipei.
Per il ministero degli Esteri statunitense, Marco Rubio, l’aggiornamento del 16 febbraio rientra nei tentativi di chiarire la «relazione non ufficiale» con Taiwan. L’amministrazione Trump aderisce alla politica «One China», ma sottolinea di opporsi a «qualsiasi cambiamento unilaterale dello status quo da entrambe le parti» e si aspetta che «le differenze attraverso lo Stretto siano risolte pacificamente, senza coercizione, in modo accettabile per i popoli da entrambi i lati».
La revisione del documento rafforza anche l’impegno ad armare Taiwan per l’autodifesa, un obbligo radicato nel Taiwan Relations Act, nelle Sei Garanzie e nei tre comunicati congiunti Usa-Cina. Il Taiwan Relations Act, approvato dal Congresso Usa nel 1979, ha stabilito relazioni significative ma non diplomatiche tra Usa e Taiwan. Le Sei Garanzie sono sei principi di politica estera definiti dall’amministrazione Reagan sui rapporti Usa-Taiwan. Non è la prima volta che Washington rivede i termini: nel 2022, l’amministrazione Biden ha rimosso frasi come «non sostiene l’indipendenza di Taiwan» e «Taiwan è parte della Cina», salvo fare quasi subito marcia indietro.
Yaita Akio ha notato che eliminare «non sostiene l’indipendenza di Taiwan» suggerisce che gli Usa potrebbero spingere per un ruolo più rilevante di Taiwan sulla scena mondiale, in organizzazioni come l’Assemblea Mondiale della Sanità. Taiwan aveva aderito nel 2009, ma è stata esclusa nel 2016 per le pressioni di Pechino.
Il 7 febbraio, Donald Trump e il premier giapponese Shigeru Ishiba hanno rilasciato una dichiarazione congiunta, ribadendo la «forte opposizione» alle provocazioni militari del regime cinese nei mari della Cina orientale e meridionale, chiedendo un approccio pacifico a Taiwan. Giorni dopo, navi da guerra Usa e canadesi hanno attraversato lo stretto di Taiwan separatamente, e il regime cinese ha risposto inviando aerei e navi oltre la linea mediana. In seguito, forze americane, francesi e giapponesi hanno svolto un’ampia esercitazione nel Mar delle Filippine.
Di fronte all’aggressività crescente del Pcc nella regione, il mese scorso l’ammiraglio della US Navy Samuel Paparo, capo del comando Indo-Pacifico Usa, ha avvertito a un forum sulla difesa che le esercitazioni militari cinesi attorno a Taiwan sono «prove» per un’unificazione forzata con la terraferma. Su ha spiegato che le attività navali di Usa e alleati servono da monito alla Cina, contribuendo a stabilizzare l’Indo-Pacifico. Ha evidenziato che un numero crescente di navi europee attraversa lo stretto di Taiwan negli ultimi anni, segno della preoccupazione internazionale per le ambizioni del Pcc di impadronirsi di Taiwan.
Pur non rappresentando un riconoscimento diplomatico formale di Taiwan, queste azioni mostrano un sostegno crescente all’autonomia dell’isola. Gli esperti di Cina suggeriscono che sia una mossa strategica di Usa e alleati per distanziarsi da Pechino e rafforzare la posizione di Taipei. Inoltre, la cooperazione tra Usa e Giappone è senz’altro interpretabile come una più ampia manovra per elevare lo status di Taiwan, contenere l’espansione del regime cinese e mantenere la pace nell’area dell’Indo-Pacifico.
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