Tra Stati Uniti e Pcc il vero campo di battaglia è quello valutario

di Redazione ETI/Terri Wu
25 Luglio 2025 9:41 Aggiornato: 25 Luglio 2025 21:39

La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina potrebbe trasformarsi in un confronto monetario. Mentre le politiche doganali di Donald Trump stanno ridisegnando le catene di approvvigionamento e il commercio internazionale, il regime cinese sembra spostare l’attenzione su un nuovo terreno di scontro: lo yuan cinese in contrapposizione al dollaro statunitense. Lo scorso mese, durante il Forum Lujiazui, un importante evento economico a Shanghai, Pan Gongsheng, governatore della Banca Centrale cinese, ha ribadito l’impegno del regime comunista a promuovere l’internazionalizzazione dello yuan.

Secondo gli addetti ai lavori, la supremazia delle valute, specialmente nel mondo digitale, sarà il prossimo fronte della guerra commerciale tra Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese. In questa fase, la paura delle sanzioni avrebbe spinto il regime cinese a cercare di espandere l’uso dello yuan quale valuta di riferimento internazionale alternativa. E il regime è preoccupato che arrivino delle sanzioni prima che le sue valute digitali possano guadagnare terreno e ottenere una maggiore accettazione a livello internazionale.
In un discorso tenuto a Shanghai a giugno, il governatore della Banca Centrale cinese ha espresso timori sul fatto che «le infrastrutture tradizionali per i pagamenti esteri possano essere facilmente politicizzate, usate come armi e strumenti di sanzioni unilaterali». Analogamente, Lian Ping, un altro influente economista cinese, ha scritto a fine maggio che «le sanzioni finanziarie e le contromisure saranno probabilmente il prossimo campo di battaglia di Stati Uniti e Cina» e che lo scontro potrebbe arrivare al punto di vedere esclusa la Cina dal sistema di scambi commerciali basati sul dollaro. E questi economisti non sarebbero, secondo gli analisti, dei semplici accademici, ma rappresenterebbero una rete di eminenze grigie facenti capo al Partito comunista cinese; le loro analisi non sarebbero quindi da considerare come delle mere raccomandazioni, ma delle vere e proprie “anticipazioni” delle prossime mosse del regime.

Il dollaro, in quanto valuta di riserva mondiale e principale mezzo di scambio per le transazioni finanziarie, è il pilastro del sistema finanziario mondiale. Le nazioni dell’alleanza Brics (capitanata dalla Repubblica Popolare Cinese) potrebbero quindi creare un sistema commerciale alternativo denominato in yuan, esportando materie prime in Cina e acquistando veicoli elettrici cinesi. Anche per questo, Donald Trump sta imponendo dazi aggiuntivi a questi Paesi. Durante l’ultimo vertice dei Paesi Brics in Brasile, il 6 luglio, i membri hanno rilasciato una dichiarazione congiunta criticando i dazi. Poco dopo, Trump ha dichiarato su Truth che «qualsiasi Paese che si allinei alle politiche antiamericane del Brics» subirà un dazio aggiuntivo del 10%. Pochi giorni dopo, il presidente americano ha rilanciato con un dazio del 50% sul Brasile, membro fondatore del Brics, citando il “processo-farsa” in corso contro l’ex presidente Jair Bolsonaro. Durante una riunione di Gabinetto l’8 luglio, Trump ha affermato che i Brics vogliono «distruggere il dollaro affinché un altro Paese possa diventare il riferimento», facendo ovviamente riferimento alla Cina. «Se perdessimo lo status di valuta di riserva mondiale – ha poi continuato Trump – sarebbe come perdere una guerra mondiale».

Secondo gli esperti, il livello finale dei dazi non è tanto significativo quanto l’instaurazione di un nuovo ordine commerciale: un sistema commerciale decentralizzato, che incentivi l’afflusso di capitali verso gli Stati Uniti, un aspetto mancante nell’Organizzazione mondiale del commercio. All’inizio del secondo mandato di Trump, il dazio medio imposto dagli Stati Uniti era del 3,4%, secondo il Wto. Il sistema commerciale internazionale era caratterizzato da dazi bassi per le importazioni negli Stati Uniti e da barriere, doganali e non, significativamente più alte imposte dagli altri Paesi. Attualmente, l’amministrazione Trump ha esteso il termine per i negoziati sui dazi dal 9 luglio al 1° agosto, senza ulteriori proroghe.

Nel frattempo, i dazi base rimangono al 10%. Trump ha inviato lettere sui dazi a decine di Paesi, stabilendo aliquote tra il 20% e il 50%. Da sottolineare è la tecnica comunicativa: il dazio viene rivelato solo al momento della ricezione della lettera, che spiazza la nazione ricevente e pone il presidente degli Stati Uniti come unico decisore, mentre gli altri Paesi possono solo prendere o lasciare; o al limite trattare, ma sempre nell’ambito delle regole del gioco stabilite da Trump.

Il professor Yeh Yao-Yuan, docente di studi internazionali presso l’Università di St. Thomas a Houston, considera i negoziati commerciali come il preludio a una nuova Guerra Fredda, che tornerà a dividere il mondo in due blocchi: uno democratico, guidato dagli Stati Uniti e l’altro comunista, comandato dal regime cinese (in sostituzione dell’Unione Sovietica). Il professor Yeh sottolinea un aspetto sfuggito ai più: nell’accordo quadro commerciale tra Stati Uniti e Regno Unito, i due alleati si sono impegnati a rafforzare la sicurezza economica reciproca affrontando «le politiche “non di mercato” di Paesi terzi». Sebbene la Cina non sia nominata esplicitamente, è noto come il regime cinese tuteli le proprie aziende (che sono la stragrande maggioranza dell’economia cinese) in ogni modo possibile, anche al fine di riversare la sua sovrapproduzione sul mercato globale.

Secondo gli esperti intervistati da Epoch Times Usa, c’è poco spazio per negoziati sui dazi tra Stati Uniti e Cina. Le discussioni in corso riguardano lo scambio di terre rare cinesi con chip americani e l’apertura del settore dei servizi cinese, in particolare quello bancario e degli investimenti, agli Stati Uniti. La Cina ha mantenuto un quasi monopolio sulle terre rare per decenni, grazie a pratiche predatorie che hanno estromesso le imprese straniere dal settore, utilizzandole come arma commerciale. Ma da qualche anno gli Stati Uniti stanno recuperando terreno a un ritmo notevole. Per cui le terre rare cinesi sono importanti solo nel breve periodo: nel medio e lungo periodo saranno sempre più accessorie, fino a diventare ininfluenti.
Altro aspetto passato sotto traccia, è che gli Stati Uniti hanno registrato un surplus commerciale con la Cina nel settore dei servizi. L’enorme surplus commerciale cinese sui beni, pari a quasi 296 miliardi di dollari, è stato parzialmente compensato da un deficit di circa 33 miliardi nel commercio di servizi. Pechino sta esplorando un’ulteriore apertura del settore dei servizi come moneta di scambio nei negoziati commerciali, poiché un mercato finanziario più aperto aumenterebbe la sua «attrattiva» e la renderebbe «troppo grande per essere sanzionata».

Ma gli esperti ritengono che la guerra dei dazi si concentrerà principalmente sugli aspetti valutari, data la vulnerabilità degli Stati Uniti, col loro debito di quasi 37 mila miliardi di dollari.
Attualmente, lo status del dollaro come valuta di riserva mondiale e principale mezzo di scambio nel commercio internazionale consente agli Stati Uniti di indebitarsi a tassi di interesse più bassi. Ciononostante, il livello del debito statunitense è così elevato che il pagamento annuale degli interessi supera la spesa per la difesa. Nell’anno fiscale 2024, gli Stati Uniti hanno speso 882 miliardi di dollari in interessi sul debito, rispetto agli 874 miliardi per la difesa. Questo rende il ruolo del dollaro ancora più cruciale, poiché un grave indebolimento – o serio dubbio di indebolimento – sulla valuta potrebbe (teoricamente) portare al default. La Cina detiene 756 miliardi di dollari in titoli del Tesoro statunitense; Hong Kong ne possiede altri 253 miliardi. Ma la Repubblica Popolare Cinese potrebbe essere il principale detentore di bond Usa al mondo, superando anche il Giappone (che ha 1.100 miliardi di dollari), grazie agli acquisti effettuati tramite istituzioni europee, di cui non si conosce l’entità. Un rapporto di J.P. Morgan Chase di aprile ha rilevato infatti che, contrariamente a quanto si crede, «la Cina non ha ridotto le sue partecipazioni in titoli del Tesoro» ma che «sono semplicemente più nascoste».
Pechino potrebbe quindi vendere i titoli in un momento critico, quando il mercato perdesse fiducia nel dollaro, facendo aumentare i tassi di interesse, se non ci fossero acquirenti per assorbire la vendita cinese. Un indebolimento dello status di valuta di riserva del dollaro potrebbe anche ridurre il potere di indebitamento di americano. Il Pcc è consapevole di questa dinamica, e infatti da anni lavora per sostituire il dollaro con lo yuan. Nel 2015, Pechino ha lanciato il proprio sistema di pagamento interbancario transfrontaliero (Cips) per le transazioni in yuan. Sebbene il Cips non sia paragonabile al sistema globale di pagamenti in dollari (Chips) in termini di scala e portata, sta crescendo. Ogni mese, il volume delle transazioni attraverso il Cips è di circa 700 miliardi di yuan, quasi il doppio rispetto al 2021, secondo il Peterson Institute for International Economics. Tuttavia, questo volume è ancora trascurabile rispetto agli 1.800 miliardi di dollari di transazioni giornaliere (oltre 50 trilioni mensili) del Chips. Inoltre, il Cips dipende ancora in gran parte dal sistema Swift, guidato comunque dagli Stati Uniti, per le transazioni internazionali.

Quindi va da sé che la situazione richieda agli Stati Uniti di trovare più partner “non cinesi” che detengano il debito statunitense e ne difendano lo status di valuta di riserva, sia nel mondo fisico che in quello virtuale. Una soluzione in questo senso potrebbero essere le “stablecoin”: valute digitali ancorate a una valuta fiat con un rapporto uno a uno, che garantiscono ai detentori la possibilità di convertirle in qualsiasi momento. Offrono la decentralizzazione e l’economicità delle valute digitali, combinate con la stabilità di una valuta tradizionale.
Attualmente, il 98% delle stablecoin è ancorato al dollaro, e l’80% è emesso al di fuori degli Stati Uniti, secondo l’Atlantic Council. I possessori possono bypassare le banche e le valute instabili dei loro Paesi. Ad esempio: un bar in Argentina o un piccolo imprenditore in Vietnam può operare direttamente con valute digitali legate al dollaro. L’anno scorso, il volume delle transazioni in stablecoin ha raggiunto 27 mila 600 miliardi di dollari, il 7,7% in più rispetto al volume sommato di Visa e Mastercard (secondo la piattaforma di scambio cripto Cex.io). Gli emittenti di stablecoin generano entrate investendo i dollari ricevuti in cambio dei token digitali e sono già diventati grossi detentori di debito statunitense. Possiedono oltre 120 miliardi di dollari in buoni del Tesoro e potrebbero detenerne oltre mille entro il 2028, secondo un rapporto di aprile del Treasury Borrowing Advisory Committee. Quindi gli emittenti di stablecoin potrebbero superare Cina e Giappone come principali detentori di buoni del Tesoro. Due mesi fa, Hong Kong ha approvato una normativa sulle stablecoin, anche se non ha ancora emesso la propria. Conglomerati cinesi come Ant Group e JD.com hanno annunciato che presenteranno domanda per diventare emittenti non appena la legge entrerà in vigore, il 1° agosto. Il 17 luglio, il Parlamento statunitense ha approvato una legge che stabilisce un quadro normativo per gli emittenti di stablecoin, e un’altra legge impone che le stablecoin siano garantite da contanti o da titoli del Tesoro. Il ministro del Tesoro americano Scott Bessent conferma su X che «le stablecoin possono rafforzare la supremazia del dollaro». Sfruttando le stablecoin, il dollaro ha esteso il proprio dominio dal mondo fisico a quello virtuale, trovando nuovi acquirenti di debito statunitense a un livello collettivo paragonabile a Cina e Giappone. E così facendo ha “scaricato la pistola” del Partito Comunista Cinese.