La Nascita di Venere del pittore rinascimentale toscano Sandro Botticelli è stata ispirata da un poeta esiliato. Costretto a trascorrere gli ultimi dieci anni di vita lontano da casa, Ovidio non smise mai di scrivere, e le opere composte durante l’esilio testimoniano il potere della letteratura di trarre speranza dalla sofferenza.
UNA POESIA E UN ERRORE
Nell’8 d.C., il cinquantenne Publio Ovidio Nasone, noto come Ovidio, fu bandito da Roma. Probabilmente aveva offeso l’imperatore Augusto, che aveva sponsorizzato la sua opera, o forse aveva commesso un crimine. Il vero motivo non si è mai saputo. Ovidio diceva di essere stato “punito” per carmen et error (una poesia e un errore). Forse voleva riferirsi a L’arte di amare, un’elegia scanzonata su come diventare un dongiovanni di successo; le autorità romane probabilmente interpretarono il libro come una promozione dell’adulterio, che in quel periodo era diventato punibile con l’esilio.
Ovidio chiarì ai lettori che quello che aveva fatto non era illegale, sebbene affermasse che fosse «più grave» dell’omicidio. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che volesse sfruttare un episodio minore per promuovere la propria figura. È anche possibile che Ovidio fosse a conoscenza di una cospirazione contro Augusto, ma che non l’abbia detto all’imperatore. In ogni caso, il poeta fu costretto a lasciare tutto e tutti quelli che amava. Nel 2017, la città di Roma lo ha riabilitato, revocando ufficialmente il suo esilio.
UN ESILIO PROLIFICO
L’opera più famosa di Ovidio è una raccolta di miti, le Metamorfosi, che secondo Paul Barolsky, professore di Arte e Letteratura all’Università della Virginia, è «il libro più illustrato del mondo antico» dopo la Bibbia. Il poema è composto da 250 racconti che ripercorrono la storia del mondo, dalla genesi alla divinizzazione di Giulio Cesare. Dall’amore struggente di Orfeo per la bella Euridice, alla tragica fine dell’egocentrico Narciso, le versioni più suggestive di queste storie popolari provengono tutte da Ovidio.
Probabilmente però, la metamorfosi più importante nella vita di Ovidio è stata determinata dal suo allontanamento: costretto nella remota città costiera di Tomis, l’attuale Costanza nell’odierna Romania, poteva fare ben poco oltre a scrivere. Comprensibilmente, il poeta si lamentava per la nuova situazione, la moglie era rimasta a Roma e nessuno poteva fargli visita. Dovette abituarsi a un clima molto più freddo che accentuava la sua solitudine. Inviava lettere allegre ad amici e nemici, e queste hanno dato modo agli studiosi di conoscere il funzionamento del sistema aristocratico nel nascente Impero Romano.
L’Ibis, una delle opere scritte a Tomis, è una feroce accusa contro un nemico innominato che Ovidio riteneva responsabile della sua disgrazia. Nonostante il rancore e la rabbia, nelle poesie che scaturiscono dal suo esilio manifesta anche la fiducia sull’amore della moglie, la mancanza della casa e la speranza di un possibile ritorno.
DALL’INVERNO ALLA PRIMAVERA
Scrivere aiutava Ovidio ad affrontare una vita solitaria. Tomis si trovava nel Regno di Tracia, uno stato satellite dell’Impero Romano, la gente del posto non parlava latino e per un poeta il cui mondo ruotava intorno alla lingua, era un grave ostacolo. Incapace di comunicare, Ovidio si dedicò alla scrittura con ancora più fervore di prima, e sebbene lamentasse il declino delle proprie capacità poetiche, le opere che scrisse a Tomis sono altrettanto brillanti delle precedenti.
Pur non considerandosi un eroe, Ovidio si rivede in Ulisse e in Enea, due figure simboliche di esuli e pellegrini. In una poesia intitolata Tempesta e preghiera, commenta la vita tumultuosa di Enea: «C’era odio per Enea». Giunone, dea dell’amore e del matrimonio, si oppose al leggendario fondatore di Roma schierandosi col suo nemico, Turnus, che cercò di provocare la morte di Enea ostacolando il suo viaggio verso l’Italia. Lo stesso accadde a Ulisse, che Nettuno, dio delle acque e del mare, punì duramente durante il ritorno a casa dopo la guerra di Troia. Tuttavia, Ovidio ricorda ai lettori che Enea «fu salvato dalla forza di Venere», che gli permise di fondare Roma, e che «Minerva salvò» Ulisse, che alla fine riuscì a tornare a casa.

Ovidio rifletteva su questi eroi mitici e sui loro viaggi per mantenere viva la speranza di tornare a casa come loro: «E per quanto io sia diverso da loro, chi vieta che una potenza divina possa essermi utile contro il dio adirato?». Un potere divino avrebbe potuto intervenire nella sua vita per aiutarlo a tornare dai suoi cari nella sua amata casa: questo desiderava il poeta.
Ovidio trovò conforto anche nel paesaggio sconosciuto ma affascinante di Tomis. In Primavera a Tomis, scrive «ragazzi e ragazze allegri colgono le viole che spuntano nei campi non seminati, i prati fioriscono di fiori variopinti, gli uccelli ciarlieri dalle gole inesperte emettono canti di primavera». E mentre il rigido inverno lasciava spazio al dolce germogliare della primavera, i marinai riprendevano i loro viaggi. Il poeta si chiedeva dove li avrebbe portati il loro viaggiare: «Con impazienza correrò incontro al marinaio e quando l’avrò salutato, gli chiederò perché viene, chi è e da quale luogo arriva».
Se parlerà «con voce greca o romana (quest’ultima sarà sicuramente la più dolce), chiunque egli sia, potrà essere uno che racconta fedelmente qualche notizia, uno che scambia e trasmette qualche storia». Il poeta ardeva dal desiderio di avere notizie di casa sua, pregava «che non sia qui il mio focolare e la mia casa, ma solo l’ospizio della mia pena», ricorrendo ai versi per conservare il pensiero della casa e aggrapparsi così alla vita.
Purtroppo, i desideri di Ovidio non si realizzarono mai, non tornò a Roma e morì senza aver rivisto l’amata moglie. Tuttavia, non lasciò mai che la sua solitaria e triste nostalgia prendesse il sopravvento: il destino lo aveva intrappolato, ma la sua mente rimase libera: «Privato della terra natia, di te e della mia casa, privato di tutto ciò che poteva essermi tolto, la mia mente è tuttavia la mia compagna e la mia gioia».
DARE UN SENSO ALLA SOFFERENZA
Le opere dell’esilio di Ovidio ispirarono molti suoi contemporanei che condivisero il suo destino. Il controverso stoico Seneca, ad esempio, scrisse una lettera consolatoria alla madre Helvia, dopo che l’imperatore Claudio lo aveva esiliato in Corsica. Seneca le scriveva che per la maggior parte del tempo scriveva, leggeva e meditava per tenere a bada il dolore. Come Ovidio, evoca Enea, spiegando alla madre che ognuno vive in esilio, in quanto ognuno deve affrontare la separazione, sia dagli amici, dalla famiglia o dalla casa.
Il premio Nobel Aleksandr Solzhenitsyn trovò un analogo conforto nella scrittura. Mentre era imprigionato in un campo di lavoro a Ekibastuz, dopo che le autorità sovietiche lo avevano espulso per aver criticato Stalin, scrisse una poesia per incoraggiare i suoi compagni di prigionia a coltivare «un’interiorità illuminata», che riteneva fosse «la gemma più alta di tutte le gemme terrene». Nei momenti difficili della vita, la letteratura poteva risollevare l’anima.
Come numerosi altri scrittori, Ovidio componeva poesie per riflettere sul proprio esilio e affrontarne le conseguenze. Certo, spesso sfogava la propria rabbia contro i poteri che decidevano del suo destino, ma ha anche lasciato immagini genuine della speranza che lo teneva in vita. Lontano da casa, privato dell’amore in terra straniera, Ovidio lasciava spaziare l’immaginazione mentre la sua penna scorreva ansiosamente per combattere la disperazione e mantenere accesa la luce.