Dopo i dati terribili di gennaio, l’economia cinese è fuori dai guai per il resto dell’anno. Dell’anno lunare cinese, si intende, visto che da qui al 7 febbraio 2016 saranno rilasciati solo due (e nemmeno molto importanti) rapporti ufficiali. Ma anche se saranno risparmiati confusi dati commerciali, cifre poco attendibili di produzione e Pil, e costanti drenaggi di riserve in valuta estera, non significa che gli analisti non possano dare le proprie stime dei dati economici e spaventare i mercati.
L’Istituto Internazionale delle finanze (Iff), per esempio, ha visto ammontare i deflussi di capitali cinesi a 676 miliardi di dollari nel 2015: «I deflussi del 2015 riflettono in gran parte gli sforzi delle imprese cinesi di ridurre l’esposizione del dollaro, dopo anni di pesanti prestiti in dollari. Le aspettative di un persistente apprezzamento dello yuan sono state sostituite da crescenti preoccupazioni per un indebolimento della moneta» afferma un rapporto dell’istituto.
Questo si riferisce al famigerato ‘carry-trade’, ovvero quando gli investitori prendono un prestito in un Paese con un basso tasso di interesse (in quesot caso gli Stati Uniti) e investono in un Paese con un alto tasso di interesse (Cina).
Nei casi precedenti di manifestazione di questo fenomeno, solitamente erano le banche internazionali o gli hedge fund ad operare. Questa volta invece sono state le corporation cinesi che, in assenza di reali opportunità economiche, si sono anche loro impegnate a battere il ferro delle speculazioni immobiliari mentre era ancora caldo.
Il carry-trade era infatti una scommessa sicura, perché la banca centrale cinese garantiva che lo yuan rimanesse stabile nei confronti del dollaro o addirittura che potesse lievemente apprezzarsi. Questa prospettiva convincente ha fatto sì che il debito estero lordo cinese raddoppiasse rispetto al 2009, raggiungendo i 900 miliardi di dollari nel 2014.
Questa scommessa sicura è saltata quando il regime ha sorprendentemente svalutato lo yuan nel mese di agosto 2015 e ha dichiarato apertamente che avrebbe voluto una valuta più economica. Per Charles Dumas di Lombard Street non è un caso: « [I mercati, ndr] stanno rilevando il desiderio del regime di avere una valuta più debole perché l’economia è debole. La causa e l’effetto sono ribaltate: è la debolezza dell’economia che sta guidando la moneta e il mercato».
Che sia nato prima l’uovo o la gallina, c’era pressione sulla valuta già a partire dalla fine del 2014, non appena gli investimenti degli ‘intenditori’ (legati alla politica) hanno iniziato a uscire. Una volta che il regime ha confermato la sua nuova politica monetaria, infatti, i cancelli si sono aperti e una marea di speculatori finanziari ha cercato di chiudere in posizione positiva, non sapendo di quanto lo yuan stesse per deprezzarsi nei confronti del dollaro. «Gli investitori stranieri nei prodotti di valuta locali hanno dovuto affrontare grandi perdite misurate in termini di dollari, e i debitori nazionali in valuta estera hanno subito perdite di bilancio a causa dei disallineamenti valutari», chiarisce il rapporto Iff.
Ma non sono solo gli speculatori finanziari e gli esperti che stanno portando fuori dalla Cina i loro soldi: gran parte dei cinesi sta incanalando i propri risparmi fuori dal Paese. E, nonostante i controlli sui movimenti dei capitali, i numeri sono da record. «I dati hanno mostrato un ampliamento nel modello di deflussi netti, tra cui una significativa diminuzione degli investimenti diretti esteri e di alcuni flussi di portafoglio, in particolare debiti, e un aumento di deflussi non registrati a causa di errori ed omissioni»: l’Iff pensa che questi 216 miliardi scaturiti da ‘errori e omissioni’ siano un buon indicatore della fuga di capitali.
«La moneta cinese sta entrando in attività reali in Occidente e in qualche misura ripaga il debito in valuta estera», spiega Dumas. Il regime ha disperatamente cercato di contenere la situazione intervenendo apertaemente sui mercati dei cambi e spendendo fino a 405 miliardi di dollari secondo le stime Iff, ma lo yuan è sceso ancora del 5 per cento dallo scorso gennaio.
Per quanto riguarda il 2016 (sia gregoriano che cinese) la Iff non crede che possa andare meglio. «La Cina assisterà a ulteriori grandi deflussi di capitali, se continua a lottare contro venti macroeconomici contrari e a intervenire pesantemente per stabilizzare la moneta», si legge nel rapporto Iff. Secondo Dumas attualmente i deflussi mensili ammontano a 100 miliardi di dollari.