Un’escalation di dazi senza precedenti tra Stati Uniti e Cina sta segnando l’inizio di un cambiamento epocale: il distacco dell’economia americana da quella cinese.
Per gli analisti, non si tratta più di una semplice disputa commerciale, ma di una vera e propria guerra per ridefinire l’assetto economico internazionale. Il confronto tra Washington e Pechino si è radicalizzato. «Siamo in rotta di collisione», osserva James Lewis, vicepresidente del Center for Strategic and International Studies, «il regime cinese non ha alcuna intenzione di arretrare. Si aspettava tutto questo già da novembre […] Trump ha solo accelerato il processo, ma il Pcc aveva già un piano».
Secondo le nostre fonti, infatti, il regime cinese si preparava a questo scontro frontale fin dal primo mandato di Trump. In passato, il regime aveva cercato di mettere nel sacco Washington (in parte riuscendoci) con un impegno ad aumentare le importazioni poi mai rispettato. Ma ora è tutto cambiato: Trump vuole rifondare le regole economiche internazionali su basi di reciprocità, e il Partito comunista cinese questo non lo accetterà mai: arretrare ora, per il regime, equivarrebbe alla più umiliante delle sconfitte. Per cui non resta che la guerra.
In questo senso, il 9 aprile ha segnato un punto di non ritorno: la Cina non è più solo un “concorrente”, ma sta assumendo un ruolo simile a quello dell’Unione Sovietica durante la Guerra fredda: quello del nemico. Secondo l’analista ed ex militare cinese Alexander Liao, il regime sarebbe talmente alle strette che potrebbe optare per una mossa estrema, come ad esempio l’invasione di Taiwan. E i recenti segnali provenienti dalle forze armate cinesi rafforzano questa ipotesi.
A Bruxelles, l’insofferenza verso Trump cresce. Il 10 aprile, l’Unione europea ha congelato per 90 giorni le contromisure sui dazi statunitensi su acciaio e alluminio e ha avviato con la Cina colloqui per fissare dei prezzi minimi sui veicoli elettrici, per eliminare i dazi sulle auto di importazione cinese.
Secondo gli analisti, Trump potrebbe anche “spingere” l’Europa verso il regime cinese ma solo fino a un certo punto, considerato il costo morale altissimo che comporterebbe allearsi con una delle più brutali dittature della Storia, nota per non usare il benché minimo rispetto verso i diritti umani più elementari.
La strategia di Trump ha riposizionato gli Stati Uniti spingendo oltre 70 Paesi a negoziare nuovi accordi commerciali, ma il regime cinese diversamente dagli Stati Uniti, può permettersi un confronto a tempo indefinito, perché la Cina è una dittatura: il Partito comunista cinese non ha bisogno di elezioni, l’America sì. E alle elezioni di metà mandato i repubblicani potrebbero perdere la maggioranza che ora hanno sia alla Camera che al Senato. Xi Jinping, insomma, ragiona su una scala temporale decennale, mentre l’amministrazione statunitense ha necessità di risultati in pochi mesi.
Ma anche Xi Jinping è sotto pressione: non tanto da parte della (sottomessa) popolazione cinese, quanto dalle élite del partito, pronte ad abbatterlo alla prima occasione. Le politiche di Xi, basate su una produzione industriale eccessiva, hanno reso l’economia cinese molto fragile e dipendente dalle esportazioni. E i dazi colpiranno duramente province strategiche come Guangdong, Zhejiang e Jiangsu. Il 10 aprile, l’agenzia di rating Fitch ha declassato il debito di diverse imprese statali cinesi: ha abbassato il rating del debito sovrano da A+ ad A. Un’economia in difficoltà potrebbe destabilizzare le alte sfere del regime, come accadde nel 1978 con la destituzione di Hua Guofeng spodestato da Deng Xiaoping con il pretesto della crisi economica.
Secondo gli esperti, quindi, Trump dovrà puntare su occupazione e controllo dell’inflazione per resistere in questo scontro a distanza. La tenuta dei mercati confermerà la solidità dell’economia americana, che è il vero punto di forza di Trump.
TAIWAN
In tutto questo, Xi Jinping potrebbe puntare su Taiwan per cambiare le carte in tavola. Il Pcc vuole riscrivere le regole del commercio internazionale, spiega una nostra fonte: sono i compratori a comandare, e nessuno compra più degli Stati Uniti. Ma una guerra, sulla carta, ribalterebbe in parte questa dinamica, favorendo il maggiore potenziale produttivo cinese: nel 2023, la manifattura cinese ha raggiunto 4.660 miliardi di dollari, pari al 30% della produzione mondiale, contro i 2.500 miliardi degli Stati Uniti.
Secondo fonti militari interne al regime cinese, lo stato maggiore delle forze armate avrebbe diffuso una circolare riservata che prevede tre punti: una guerra ormai inevitabile contro Taiwan, simile alla Guerra di Corea, caratterizzata da negoziati durante i combattimenti; poi un confronto militare diretto con gli Stati Uniti, e infine lo studio delle uniformi americane per riconoscerle sul campo. Insomma, una guerra risolverebbe molti dei problemi di Xi: distoglierebbe l’attenzione dall’economia, metterebbe a tacere le fazioni ostili e il regime avrebbe un nemico esterno per legittimare un potere sempre più contestato dalla popolazione cinese.
Ma, al di là delle dimostrazioni di forza a uso propagandistico, secondo diversi analisti il Partito comunista cinese non sarebbe realmente preparato a una guerra: le sue forze armate non hanno alcuna esperienza di combattimento e gli armamenti cinesi, nel loro insieme, non sono all’altezza di quelli americani. Ma, soprattutto, la preparazione e la motivazione dei militari cinesi non sono minimamente paragonabili a quelle dei militari americani. Per Xi Jinping, giocare la carta della guerra sarebbe solo fuga in avanti. Che potrebbe costargli molto cara.