L’impatto delle politiche commerciali sugli Stati Uniti

di Mike Fredenburg per ET USA
25 Aprile 2025 8:58 Aggiornato: 25 Aprile 2025 8:58

I mercati finanziari mal digeriscono i cambiamenti improvvisi, soprattutto quando sono accompagnati da incertezza. Negli ultimi tempi, le oscillazioni degli indici azionari riflettono questa realtà, reagendo in modo eccessivo a ogni nuova notizia negativa amplificata dai media. Tuttavia, modellare le politiche pubbliche per assecondare le fluttuazioni del mercato è un’impresa vana.

Altrettanto insensato è compromettere la sicurezza nazionale affidandosi a componenti e materiali di origine cinese per l’apparato militare statunitense. Dipendere dalla Cina per dispositivi di protezione medica e farmaci è altrettanto rischioso. Inoltre, la quasi totale dipendenza da potenze straniere per il trasporto marittimo delle merci a causa di una capacità cantieristica nazionale debole e non all’altezza di una superpotenza, mette a repentaglio la sicurezza del Paese e contribuisce significativamente al declino della Marina statunitense.

I deficit commerciali annuali, che raggiungono i mille miliardi di dollari, indeboliscono l’economia americana. Allo stesso modo, i deficit di bilancio annuali di pari entità, che si aggiungono al debito nazionale già gravoso di 36 mila miliardi di dollari, rappresentano una minaccia per la sicurezza nazionale. Il servizio di questo debito costa ai contribuenti statunitensi mille miliardi di dollari all’anno in interessi, rendendo estremamente complesso finanziare le forze armate senza accumulare ulteriore debito.

Tutti questi problemi sono causati o aggravati da decenni di politiche che hanno permesso a potenze straniere, tra cui alcune ostili come la Cina, di condurre una guerra commerciale unilaterale contro le imprese statunitensi attraverso pratiche predatorie. Il risultato è un’economia americana più fragile, meno equilibrata e meno dinamica, accompagnata da salari reali stagnanti o in calo per la classe lavoratrice. In sintesi, le politiche commerciali fallimentari degli ultimi trent’anni hanno avuto un impatto devastante sulla manifattura statunitense, mettendo a rischio sia la sicurezza nazionale che quella economica. Queste scelte hanno permesso alla Cina e ad altri Paesi protezionisti, che fanno largo uso di dazi, di svuotare la base industriale americana.

L’idea di un impegno costruttivo con la Cina si è rivelata un disastro senza precedenti per gli Stati Uniti. La realtà è che non è mai esistito, né mai esisterà, qualcosa di lontanamente simile al libero scambio con Paesi come la Cina comunista. Inoltre, anche qualora un commercio equo fosse possibile con un altro Stato, gli interessi di sicurezza nazionale e altri fattori potrebbero giustificare misure di protezione per le industrie americane.

Sebbene l’efficacia dei dazi sia oggetto di accesi dibattiti, va ricordato che tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, gli Stati Uniti hanno conosciuto una straordinaria crescita industriale e significativi aumenti dei salari per i lavoratori, proprio in presenza di dazi elevati. Più di recente, la Corea del Sud è diventata una potenza economica mondiale adottando politiche commerciali fortemente protezioniste e nazionaliste, un approccio definito mercantilismo dello sviluppo, che ha trasformato rapidamente un Paese agricolo del Terzo Mondo in una potenza economica, con un netto miglioramento del tenore di vita dei suoi cittadini. La Cina, a sua volta, grazie a politiche nazionaliste, protezioniste e predatorie mirate contro le industrie statunitensi, si è affermata come la più grande potenza industriale del mondo.

A causa della guerra commerciale unilaterale condotta con successo contro gli Stati Uniti negli ultimi trent’anni, l’economia americana è passata da una solida base industriale, la più grande al mondo, a una realtà il cui prodotto interno lordo dipende sempre più dalla creazione di migliaia di miliardi di dollari di debito pubblico e privato ogni anno. I fondi che il governo prende in prestito per pagare dipendenti, fornitori e appaltatori, così come i miliardi di dollari di trasferimenti mensili destinati ai beneficiari della previdenza sociale, alle pensioni dei dipendenti pubblici e militari, a Medicaid e ai programmi di assistenza, vengono conteggiati come Pil quando vengono spesi dai destinatari. Di conseguenza, maggiore è il debito contratto e distribuito dal governo, più alto è il Pil. Allo stesso modo, i consumatori che si indebitano per acquistare beni contribuiscono a gonfiare il Pil, un indicatore inaffidabile, se non fuorviante, della salute economica.

È opportuno ricordare che, sebbene l’economia statunitense del dopoguerra fosse trainata dai consumi, essa si fondava su una robusta base industriale, sostenuta da lavoratori della classe media ben retribuiti che producevano i beni consumati dagli americani. Sebbene gli Stati Uniti abbiano registrato deficit commerciali a partire dai primi anni Settanta, questi sono rimasti contenuti fino al 1995, quando hanno iniziato a crescere rapidamente, con sempre più nazioni che hanno sfruttato i mercati americani aperti e con dazi bassi. Nel 2024, il deficit commerciale ha raggiunto l’impressionante cifra di 1.130 miliardi di dollari, di cui 298 miliardi attribuibili alla Cina. Gli Stati Uniti registrano anche significativi deficit commerciali con Messico e Vietnam, rispettivamente di 172 miliardi e 123,5 miliardi di dollari.

Si ritiene comunemente che questi deficit siano legati alle differenze nei costi del lavoro, che consentono a molti Paesi di produrre beni a prezzi inferiori rispetto agli Stati Uniti. Tuttavia, questa convinzione non è del tutto corretta. Per molti prodotti manifatturieri, il costo del lavoro rappresenta una componente relativamente piccola. Ciò significa che, considerando tutti i costi, compresi quelli di trasporto e di capitale (macchinari e attrezzature), molti beni potrebbero essere prodotti negli Stati Uniti a un costo inferiore. Tuttavia, numerosi governi stranieri, con la Cina in prima linea, sovvenzionano le proprie industrie per consentire loro di vendere sottocosto, anche per periodi prolungati, al fine di estromettere le aziende americane dal mercato o costringerle a delocalizzare la produzione. Questo commercio iniquo e non libero ha generato la cosiddetta Rust Belt e contribuito in modo significativo all’epidemia di morti per overdose da droghe.

Inoltre, la manifattura ha un effetto moltiplicatore economico medio di 2,64, il che significa che ogni dollaro di produzione genera ulteriori 1,64 dollari di attività economica. Al contrario, il settore dei servizi ha un effetto moltiplicatore di circa 0,5, e i posti di lavoro in questo ambito offrono, in media, salari inferiori rispetto a quelli della manifattura. Consentire ad altri Paesi di sottrarre la base manifatturiera americana ha avuto un impatto enorme sull’economia e sulla creazione di ricchezza negli Stati Uniti. In altre parole, la distruzione della base industriale ha reso il Paese più povero di quanto sarebbe stato se si fosse mantenuta un’economia più equilibrata.

Il presidente Donald Trump sta cercando di correggere oltre trent’anni di politiche economiche sbagliate, utilizzando, tra gli altri strumenti, i dazi. Nella misura in cui questi vengono impiegati per ridurre lo squilibrio commerciale e per riportare in patria e rafforzare industrie strategiche per la difesa, come l’acciaio, i semiconduttori, le terre rare e i magneti, il loro uso aggressivo è giustificato. È altrettanto sensato che il presidente utilizzi tutti gli strumenti a sua disposizione per creare condizioni più eque per la manifattura americana.

Certamente, le azioni di Donald Trump hanno scosso lo status quo, ma è innegabile che gli Stati Uniti siano diventati dipendenti da beni stranieri economici, il cui prezzo reale per il Paese è stato tutt’altro che conveniente. Liberarsi da questa dipendenza comporterà inevitabilmente alcune difficoltà. Tuttavia, considerando che lo status quo minaccia sia la sicurezza nazionale sia quella economica, affrontare un periodo di transizione per costruire un Paese più sicuro e prospero ne vale certamente la pena.

 

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