Nei primi anni Duemila, la Cina occupava una posizione marginale nel panorama finanziario internazionale. Poi, attraverso la Nuova via della Seta, il regime cinese ha iniziato a finanziare la costruzione di ponti, porti e ferrovie nel “Sud del mondo”, presentando la propria strategia come una collaborazione vantaggiosa per tutti. Ma l’inganno ormai è sotto gli occhi del mondo intero, e molte delle nazioni tra le più povere al mondo non considerano più la Repubblica Popolare Cinese un socio in affari: la vedono piuttosto come uno spietato strozzino che bussa alla loro porta per sottrarre loro il più possibile.
L’ascesa della Cina a ruolo di grande finanziatore mondiale è stata fulminea: già a metà degli anni 2010, la dittatura comunista cinese era di fatto la prima fonte di nuovo credito a livello mondiale. Nel momento di massimo slancio, la massa dei prestiti erogati da Pechino ha superato addirittura quella sommata di istituzioni come Fondo monetario internazionale, Banca mondiale e Club di Parigi. Nel 2023, la Cina era il maggiore creditore in oltre cinquanta Paesi, e deteneva quasi il 26% del totale dei debiti sovrani dei Paesi in via di sviluppo. Oggi, figura tra i primi cinque creditori in circa tre quarti delle nazioni del terzo mondo.
Nel 2025 i debitori del regime cinese dovranno versare ben 35 miliardi di dollari, di cui circa 22 miliardi saranno pagati dalle 75 nazioni più povere al mondo. E queste cifre relative ai rimborsi superano i nuovi finanziamenti concessi: oggi le nazioni indebitate restituiscono a Pechino più di quanto prendano in prestito: recenti studi stimano un calo dell’indebitamento complessivo verso la Cina di quasi 4 miliardi di dollari all’anno.
LO STROZZINAGGIO DEL REGIME COMUNISTA CINESE
Il nodo centrale di ogni operazione creditizia è rappresentato dalle condizioni contrattuali: secondo il Lowy Institute, i prestiti cinesi implicano periodi di sospensione dei pagamenti ridotti (da tre a cinque anni) e scadenze tra i quindici e venti anni.
Scaduti i primi periodi cosiddetti “di grazia”, molti governi debitori della Cina si trovano a affrontare la fase dei rimborsi, in concomitanza con la crescita dei tassi d’interesse e la pressione sui prezzi delle materie prime. Contemporaneamente, i nuovi prestiti erogati dal regime sono in netto calo, per cui vi è una minore liquidità disponibile allo sviluppo. E il recupero crediti di Pechino è implacabile.
In più, le banche cinesi, al momento della concessione del credito pretendono in garanzia tutta una serie atti e diritti di prelazione che le trasformano in creditori ultra-privilegiati: “sequestrano” come garanzia le fonti di reddito estero derivanti dalle esportazioni di materie prime dello Stato debitore, pretendono in pegno asset come porti o altre infrastrutture e ricchezze eccetera. E, non a caso, circa il 60% dei crediti esteri cinesi è nei confronti di nazioni che sono già in difficoltà per conto proprio, o insolventi o che richiedono la ristrutturazione del debito.
Come un qualunque strozzino malavitoso, insomma, il regime cinese presta denaro a soggetti in difficoltà non con l’obiettivo di guadagnare lecitamente da interessi equi sul capitale prestato (e mirando a recuperare il capitale stesso), ma sapendo già in partenza che il Paese debitore non sarà in grado né di rimborsare il capitale né di pagare gli interessi, e con la sola prospettiva di stringergli il cappio al collo, fino a appropriarsi degli asset pretesi inizialmente in garanzia.
Per molti Paesi, quindi, il prezzo è ovviamente pesantissimo. In alcuni casi, le somme versate alla Cina arrivano a rappresentare un quarto dell’intero bilancio destinato al servizio del debito, superando di gran lunga quanto si destina a altri creditori. Con questi vincoli, il regime cinese esercita un controllo effettivo sugli asset strategici dei Paesi indebitati. Inoltre, più crescono i pagamenti, più le nazioni sono costrette a tagliare sulla sanità o sull’istruzione, e ad aumentare la pressione fiscale per pagare il debito precipitando in una spirale di decrescita che tende distruggere lo Stato.
In tutto questo, l’attenzione cinese per le nazioni meno sviluppate ma ricche di materie prime non è affatto casuale. Paesi come la Repubblica Democratica del Congo, l’Indonesia e il Brasile, fortemente dipendenti dal commercio internazionale, sono tra i più esposti col regime, e gli Stati più piccoli hanno ormai rapporti di dipendenza totale dal credito cinese, soprattutto dopo aver accumulato debiti consistenti negli anni 2010, quando le condizioni di indebitamento apparivano favorevoli.
Per molti Stati, questa trappola del debito rischia di tradursi in una sorta di nuova signoria feudale, in cui i diktat della dittatura comunista cinese li privano di gran parte delle proprie autonomia decisionale e legittima sovranità. E più, da un lato, l’economia cinese continuerà ad andare male per conto proprio, mentre, dall’altro, verrà massacrata dai (giusti) dazi occidentali, peggio sarà per i Paesi che sono debitori di Pechino: come un drogato in crisi d’astinenza, il Partito comunista cinese non avrà altra scelta che appropriarsi sempre più degli asset pretesi in garanzia dai suoi debitori.
L’inevitabile crollo del regime comunista cinese, insomma, rischia purtroppo di trascinarsi dietro tante fra le nazioni più povere e deboli del pianeta.




