L’azione del Partito comunista cinese e di Xi Jinping per imporre lo yuan quale valuta di scambio internazionale è minata dalle loro stesse politiche, dai rigidi controlli sui capitali, dai tassi di cambio artificialmente bassi e da una strategia che privilegia le esportazioni rispetto alla credibilità monetaria. Da quando ha assunto il potere più di un decennio fa, Xi ha costantemente promosso l’internazionalizzazione dello yuan, con l’obiettivo di elevarlo a valuta di scambio e di riserva mondiale. Ma la sua politica monetaria è segnata da contraddizioni interne. Xi persegue tre obiettivi che sono fondamentalmente in contrasto tra loro: vuole internazionalizzare lo yuan, il che richiederebbe un tasso di cambio determinato dal mercato e l’apertura del conto capitale; vuole prevenire la fuga di capitali, il che imponerrebbe controlli rigorosi sui flussi finanziari; e vuole mantenere la competitività delle esportazioni. Quest’ultimo obiettivo è diventato sempre più evidente dall’escalation della guerra commerciale con gli Stati Uniti, che ha portato la Cina a indebolire lo yuan per tenere i prezzi delle esportazioni accessibili.
La Banca Centrale sta impedendo che lo yuan si apprezzi sul dollaro. Solo a giugno, le banche statali cinesi hanno aggiunto 47 miliardi di dollari netti in attività estere, portando l’accumulo totale a 305 miliardi negli ultimi quattro trimestri: Pechino sta di fatto acquistando dollari e vendendo yuan, aumentando così l’offerta interna di yuan e esercitando una pressione al ribasso sul suo valore. Allo stesso modo, se in passato le banche cinesi utilizzavano il mercato estero degli swap in dollari per sostenere lo yuan e impedirne il deprezzamento, oggi hanno invertito la strategia e li prestano. Questo ha causato un calo di circa il 20 per cento del tasso di cambio reale effettivo della Cina negli ultimi tre anni. Analogamente, Pechino continua a mantenere controlli rigorosi sui capitali, con gli investimenti privati in uscita strettamente regolati. Questo complica ulteriormente la situazione politica, poiché le misure di controllo sui capitali limitano gli aggiustamenti naturali del mercato che potrebbero sostenere gli sforzi di internazionalizzazione. Ad esempio, gli Stati Uniti mantengono pochi o nessun controllo sui capitali e, in quanto valuta di scambio e di riserva mondiale, accettano che quasi la metà di tutti i dollari statunitensi circoli all’estero.
Il Partito comunista cinese sta promuovendo lo yuan come valuta per il commercio e i pagamenti. A marzo, i pagamenti transfrontalieri in yuan hanno raggiunto un livello record, e la Banca Centrale ha ampliato le linee di swap valutario con le Banche Centrali straniere fino a 4 mila 300 miliardi di yuan (591 miliardi di dollari). Paesi come l’Argentina e il Pakistan stanno approfondendo la cooperazione finanziaria basata sullo yuan, e Unionpay sta espandendo i sistemi di pagamento con codice Qr nel Sudest asiatico per ridurre la dipendenza dal dollaro nel turismo e nelle transazioni delle piccole imprese. La Cina sta anche promuovendo lo yuan digitale per il commercio di materie prime e per prezzare beni chiave come il petrolio e l’oro in yuan. La Banca popolare cinese sta rafforzando i servizi finanziari di Shanghai, espandendo il Cips (il sistema cinese di pagamenti transfrontalieri in yuan) e investendo in infrastrutture basate su blockchain. Sebbene lo yuan rappresenti ancora solo circa il 4 per cento dei pagamenti mondiali, rispetto a oltre il 50 per cento del dollaro statunitense, i funzionari cinesi vedono nelle crescenti tensioni geopolitiche e nella diminuzione della fiducia negli asset statunitensi un’opportunità per espandere il ruolo internazionale dello yuan, soprattutto tra i mercati emergenti.
Tuttavia, l’ambizione del Pcc di posizionare lo yuan come valuta potente nel commercio mondiale sta affrontando nuove difficoltà. La convertibilità limitata dello yuan e le sue deboli prestazioni a lungo termine continuano a renderlo poco attraente per gli investitori. Un problema aggravato dall’inizio della seconda guerra commerciale dell’amministrazione Trump, che ha innescato pessimismo tra gli investitori. Gli analisti prevedono che nel 2025 lo yuan potrebbe perdere fino al 10% rispetto al dollaro. Rispetto alla precedente guerra commerciale, lo yuan è oggi più vulnerabile a causa di investimenti esteri più deboli, rendimenti obbligazionari in calo e un’economia interna in rallentamento. Sebbene ci si aspetti che la Banca popolare cinese resista a un deprezzamento rapido nel breve termine, potrebbe comunque consentire un indebolimento graduale dello yuan per preservare la competitività delle esportazioni.
Ma una valuta che si indebolisce costantemente è essenzialmente in contrasto con l’obiettivo del Pcc di stabilire lo yuan come valuta di riserva mondiale. Un problema fondamentale è quello della conservazione del valore: le valute di riserva devono mantenere il potere d’acquisto nel tempo. Una valuta deliberatamente indebolita non è un asset di riserva adatto, poiché un valore in calo è proprio quello che i governi stranieri e gli investitori vogliono di evitare.
Il punto qui è la fiducia: lo status di valuta internazionale dipende dalla convinzione che il paese emittente non manipolerà i tassi di cambio per guadagni a breve termine. Gli interventi ripetuti di Pechino per svalutare lo yuan segnalano una disponibilità a sacrificare la stabilità valutaria in cambio di vantaggi commerciali. Di conseguenza, gli investitori internazionali sono esposti a rischi valutari guidati da motivazioni politiche.
La Cina è insomma caduta nella sua stessa “trappola dello yuan”: l’economia avrebbe bisogno di una valuta più debole per la competitività, ma la Banca Centrale cinese non può agire a causa delle ambizioni di Xi per lo yuan e delle preoccupazioni sulle reazioni dei partner commerciali. Questa contraddizione interna di Xi Jinping rispetto alla politica monetaria – promuovere l’internazionalizzazione dello yuan mentre e limitare contemporaneamente la mobilità dei capitali e resistere all’apprezzamento – attira sempre più l’attenzione a livello internazionale.
Il Tesoro statunitense sta adeguando il suo monitoraggio dei cambi esteri per includere le attività delle banche statali e dei fondi sovrani. Questi segnali contrastanti, i rigidi controlli sui capitali, gli sforzi per internazionalizzare lo yuan e gli interventi nascosti per deprezzare artificiosamente la valuta sollevano seri interrogativi sulla coerenza e sulla sostenibilità della strategia valutaria del Pcc sotto Xi. Come minimo, queste politiche conflittuali sono destinate a ritardare ulteriormente l’accettazione dello yuan come valuta mondiale. Nel breve termine, potrebbero aiutare le esportazioni cinesi, ma solo in misura limitata. Con i dazi statunitensi che ora vanno dal 15 al 145 per cento, uno “sconto valutario” del 10 per cento non basterà a compensare gli acquirenti che stanno già cercando mercati di approvvigionamento alternativi.
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