L’annoso avvertimento degli Anti-Federalisti

di RealClearWire PER ET USA
7 Marzo 2025 15:30 Aggiornato: 7 Marzo 2025 22:44

Nei dibattiti frazionati del 1787-88, mentre l’inchiostro si asciugava sulla proposta di una Costituzione, un gruppo di scettici — ora denominati Anti-Federalisti — guardava attraverso la foschia dell’ottimismo rivoluzionario per intravedere un futuro preoccupante. Questi pensatori, spesso oscurati dal triumvirato federalista di Hamilton, Madison e Jay, prevedevano un potere centralizzato incline a metastatizzare oltre i suoi confini, generando una burocrazia che avrebbe oscurato le libertà che si proponeva di proteggere. Oggi, nel 2025, la loro lungimiranza ci perseguita. Attraverso una lente conservatrice — radicata nel governo limitato, nella sovranità individuale e nella responsabilità locale — gli avvertimenti degli Anti-Federalisti illuminano la pubblica amministrazione in espansione che domina l’America moderna. Le loro intuizioni, un tempo respinte come allarmiste, ora richiedono un confronto: abbiamo costruito il leviatano che temevano e possiamo ancora smantellarlo?

VOCI

Gli Anti-Federalisti non erano un monolito. Patrick Henry tuonava contro la tirannia, George Mason insisteva su una Bill of Rights, ma figure meno conosciute come Brutus, Federal Farmer e Cato — pseudonimi che celavano uomini di intelletto e principio — offrivano critiche chirurgiche alla traiettoria del potere centralizzato. Brutus, probabilmente Robert Yates di New York, avvertiva nel 1787 che la clausola “necessaria e appropriata” della Costituzione era un vaso di Pandora, che concedeva al Congresso la possibilità di generare un esercito di esecutori.

Federal Farmer, forse Richard Henry Lee, immaginava una repubblica distante, dipendente da un “numeroso gruppo” di ufficiali, erodendo l’intimità civica della governance su piccola scala. Cato, forse il governatore George Clinton, prevedeva una classe di élite che impiegava il potere amministrativo per consolidare il proprio dominio. Questi uomini non erano anarchici; apprezzavano l’ordine ma diffidavano dalla concentrazione. Traendo spunto dalla caduta di Roma e dall’espansionismo imperiale britannico, sostenevano che il potere, una volta accumulato, cresce inesorabilmente — spesso attraverso mani non elette. La loro sconfitta nel 1788 non zittì la loro logica; la rinviò semplicemente alla sua convalida.

LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

Proiettandoci al 2025, l’incubo degli Anti-Federalisti è la nostra realtà. La burocrazia federale — più di 2 milioni di dipendenti, escludendo i contrattisti — si estende dalle agenzie come l’Irs all’Epa, emettendo regolamenti che competono con quelli del Congresso per portata e impatto. Il Codice delle Normative Federali, un labirinto che supera le 180.000 pagine, sovrasta la concisa struttura della Costituzione. Questo non è governo per consenso; è governo per decreto, eseguito da tecnocrati isolati dalle urne. La clausola elastica di Brutus trova il suo erede nella discrezione delle agenzie — pensate ai mandati estesi della Fda o alle mutevoli regole sulle armi dell’Atf. Il “numeroso gruppo” di Federal Farmer prospera nei 240.000 dipendenti del Dipartimento della Sicurezza Nazionale, mentre la classe di élite di Cato riflette la porta girevole tra le suite aziendali e i posti di regolamentazione.

I conservatori, da lungo tempo difensori di un governo limitato, vedono questo come un tradimento dei principi fondamentali. La Costituzione era un patto di poteri enumerati, non un assegno in bianco per l’espansione amministrativa. Eppure il XX secolo — lo zelo del Progressismo, l’ambizione del New Deal, la portata della Great Society — ha esteso quel patto oltre ogni riconoscimento. Oggi, le agenzie non si limitano ad applicare le leggi; le creano, le giudicano e puniscono la non conformità, facendo collassare la separazione dei poteri in un unico, incontrollabile pugno. Non si tratta di un’iperbole: la deferenza Chevron della Corte Suprema (fino a poco tempo fa) permetteva alle agenzie di interpretare leggi vaghe, legiferando di fatto da uffici a Washington.

UNA CRITICA CONSERVATRICE

Dal punto di vista conservatore, questa eccessiva espansione burocratica offende tre principi fondamentali: sovranità, responsabilità e sussidiarietà. In primo luogo, la sovranità appartiene al popolo, non ai mandarini non eletti. Quando l’Epa impone a un contadino dove scavare una fossa o l’Irs fa audit con zelo algoritmico, l’autonomia individuale si erode — sostituita da un decreto dall’alto che è antitetico all’autogoverno. In secondo luogo, la responsabilità richiede che il potere risponda ai governati. Eppure, i capi delle agenzie, spesso carrieraisti o trapianti dell’industria, non hanno un elettorato; le loro regole bypassano il caotico processo democratico del Congresso. In terzo luogo, la sussidiarietà — il principio secondo cui le decisioni spettano al livello più locale competente — è in frantumi mentre gli stati e le città si piegano ai decreti federali su tutto, dall’istruzione alle emissioni.

Questo non è solo nostalgia per un passato più semplice. La complessità della pubblica amministrazione — lodata dai progressisti come una barriera contro i mali moderni — diventa la sua stessa giustificazione, una macchina che si auto-perpetua. I conservatori vedono un parallelismo con la Legge di Parkinson: la burocrazia si espande per occupare lo spazio concesso, poi chiede di più. Il risultato? Un governo troppo vasto per essere compreso, tanto meno controllato, dai cittadini che afferma di servire.

LA REPLICA DEI FEDERALISTI

La giustizia impone di riconoscere anche i Federalisti. Madison argomentava nel 1788 che una forte unione avrebbe potuto domare il frazionamento; Hamilton vedeva vigore in un esecutivo centralizzato. I loro eredi oggi — difensori della pubblica amministrazione — sostengono che questo risolva problemi troppo grandi per gli stati: cambiamenti climatici, pandemie, eccessi delle grandi imprese. Senza i dati del Cdc o la supervisione della Sec, potrebbe regnare il caos. Non si tratta di una questione frivola; una nazione frammentata potrebbe vacillare in un’era globalizzata.

Eppure, gli Anti-Federalisti risponderebbero: efficienza non è libertà. Un governo capace di gestire le crisi è anche capace di dominare su di noi. I Federalisti si affidavano ai controlli istituzionali — Congresso, tribunali, elezioni — per limitare l’eccesso. Ma quando le agenzie superano questi controlli, assumendo ruoli legislativi, esecutivi e giudiziari in uno, l’equilibrio pende verso la tirannia. I conservatori non negano la necessità di un governo; mettono in discussione chi governa e quanto da vicino venga sorvegliato.

RIPRENDERSI LA REPUBBLICA

Gli Anti-Federalisti non si limitavano a diagnosticare — accennavano anche a rimedi che i conservatori potevano affinare. Prima di tutto, riaffermare la primazia legislativa. Il Congresso deve riprendersi il suo ruolo di legislatore, restringendo i mandati delle agenzie con precisione — niente più ambiguità sul “necessario e appropriato”. Una “Clausola di Scadenza” potrebbe costringere le normative a scadere se non rinnovate dalle mani elette, potando la selva burocratica. In secondo luogo, potenziare gli stati. Il federalismo non è qualcosa di antiquato; è un muro di protezione. Devolvere i poteri — come l’istruzione o l’uso del suolo — ai governatori e alle legislature che respirano la stessa aria dei loro elettori. In terzo luogo, sfruttare la tecnologia per la trasparenza. La regolamentazione tramite registri blockchain o audit basati su intelligenza artificiale dei bilanci delle agenzie potrebbe esporre sprechi e eccessi, trasformando gli strumenti di controllo in strumenti di responsabilità. Questi non sono rimedi utopistici ma reset pratici, che risuonano con l’appello degli Anti-Federalisti per la prossimità e il contenimento. I critici grideranno alla paralisi o all’inefficienza. I conservatori rispondono: meglio un governo lento e libero che uno rapido e sganciato.

LE SCOMMESSE NEL 2025 E OLTRE

Mentre ci troviamo nel 2025, la pubblica amministrazione non è un spauracchio partitico — è una crisi strutturale. I conservatori, diffidenti nei confronti del potere centralizzato fin dalle “nove parole più spaventose” di Reagan («Vengo dal governo e sono qui per aiutare»), trovano negli Anti-Federalisti un alleato storico. I loro avvertimenti risuonano non perché fossero infallibili — la monarchia non è tornata — ma perché compresero la natura del potere: esso cresce a meno che non venga confinato.

Guardando al 2050, le scommesse si fanno più acute. Una burocrazia iper-digitale  —con esecutori IA, regolatori con droni, ibridi agenzia-impresa — potrebbe ridurre i cittadini a semplici punti dati in un algoritmo federale. Oppure potremmo ascoltare Brutus, Federal Farmer e Cato, forgiando una repubblica dove il potere rimane vicino, chiaro e vincolato. Gli Anti-Federalisti hanno perso la loro battaglia, ma ci hanno lasciato la loro mappa. È ora che la seguiamo — non per smantellare il governo, ma per riscattarlo.

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