Con un annuncio destinato a suscitare riflessioni e reazioni a livello internazionale, Donald Trump ha comunicato, il 13 maggio, l’intenzione di revocare le sanzioni statunitensi nei confronti della Siria: un punto di svolta nelle relazioni tra Washington e Damasco, dopo oltre un decennio di isolamento diplomatico e pressioni economiche.
La decisione, resa nota durante un intervento al Forum sugli investimenti tra Stati Uniti e Arabia Saudita a Riad, si colloca in un contesto mutato: la caduta del Presidente Bashar al-Assad, fuggito all’estero nel dicembre scorso dopo una repentina avanzata delle forze ribelli, ha lasciato spazio a un nuovo assetto politico, ancora fragile ma già operativo. Alla guida del governo di transizione si trova Ahmed al-Sharaa, leader di Hay’at Tahrir al-Sham, formazione di matrice sunnita fondatasi su un precedente legame con al-Qaeda, tuttora classificata dagli Stati Uniti come organizzazione terroristica straniera.
La presa di Damasco da parte di questa formazione ha avviato una fase di trasformazione. Al-Sharaa e i suoi collaboratori hanno infatti cercato di smarcarsi dall’impronta ideologica fondamentalista del passato, optando per un registro più moderato e dichiaratamente volto alla ricostruzione istituzionale. Una retorica, tuttavia, che rimane sotto attenta osservazione da parte della comunità internazionale, consapevole del curriculum controverso di molti degli attuali protagonisti della transizione.
In questo scenario, le aperture del Presidente Trump si inseriscono in una strategia che sembra privilegiare il realismo politico. Il capo della Casa Bianca ha parlato della necessità di «dare una possibilità alla Siria» e, nel corso del suo viaggio in Arabia Saudita, ha espresso la volontà di salutare il nuovo Presidente siriano. E’ stato inoltre annunciato un imminente incontro tra il ministro degli Esteri statunitense, Marco Rubio, e il nuovo omologo siriano, previsto in Turchia.
Questi segnali si aggiungono a un percorso di progressivo allentamento delle pressioni già avviato sotto la precedente amministrazione. Già nel dicembre scorso, infatti, il Presidente Biden aveva preso le distanze da una linea esclusivamente sanzionatoria, sottolineando che alcune delle forze ribelli responsabili della caduta di Assad erano a loro volta macchiate da episodi di terrorismo e abusi. Tuttavia, Biden aveva anche riconosciuto il cambiamento nei toni delle dichiarazioni rilasciate dai nuovi leader siriani, pur ribadendo la necessità di giudicarli in base ai fatti.
A rafforzare questa cauta apertura era stato anche il ritiro, da parte di Washington, della taglia da 10 milioni di dollari su al-Sharaa, seguito da un incontro tra quest’ultimo e Barbara Leaf, all’epoca assistente del ministro degli Esteri per il Vicino Oriente.
La Siria post-Assad si presenta dunque come un’incognita complessa: il nuovo governo di transizione deve ancora dimostrare di saper garantire stabilità, legalità e rappresentanza. La revoca delle sanzioni da parte degli Stati Uniti potrebbe rappresentare un’opportunità per rafforzare un processo di normalizzazione, ma non mancano le riserve. Resta infatti da capire se le dichiarazioni concilianti dei nuovi vertici siriani troveranno riscontro in comportamenti concreti, rispettosi dei diritti umani e delle aspettative della popolazione. La comunità internazionale osserva. E, per il momento, resta sospesa tra cautela e speranza.