La probabilità di diventare ricchi come Bill Gates, famosi come Oprah Winfrey o amministratori delegati di grandi aziende come Tim Cook è tanto remota quanto lo era, quattro secoli fa, appartenere all’aristocrazia francese sotto Luigi XIV. Eppure, nella società contemporanea, mass media, libri e programmi televisivi promuovono un messaggio opposto: tutto sembra possibile.
Un’idea brillante, un garage e una forte motivazione basterebbero per fondare una startup venduta poi per milioni, per sposare una persona di successo, per viaggiare spesso o per realizzare ogni ambizione. L’idea che il successo derivi esclusivamente dal duro lavoro appare logica in una società meritocratica, dove talento, intelligenza e impegno vengono premiati. Ma questa convinzione, in sé giusta, nasconde un aspetto problematico. Negli ultimi anni, alcuni filosofi hanno evidenziato i danni causati dalla credenza che il successo dipenda esclusivamente dalla volontà individuale, senza considerare il ruolo del destino o della fortuna.
Nel Medioevo inglese, una persona molto povera era considerata “sfortunata”. Oggi, soprattutto in Occidente, chi si trova al fondo della scala sociale rischia di essere etichettato come un perdente, o un fallito. Questo cambiamento di percezione, secondo cui la mancanza di successo equivale a scarsa dedizione, rappresenta una delle principali fonti di ansia contemporanea. Lungi dall’essere una superstizione medievale, il principio che il successo non dipenda solo da talento o volontà, ma anche dalla fortuna, resta valido.
Uno studio condotto da Alessandro Pluchino dell’Università di Catania, pubblicato nel luglio 2018, ha utilizzato un modello computerizzato per analizzare il talento di un campione di persone, valutando competenze, intelligenza e capacità. Il modello ha simulato un periodo di 40 anni, esaminando come gli individui sfruttassero il talento per cogliere opportunità e accumulare ricchezza. I risultati, sorprendenti, hanno rivelato che le persone più ricche non erano le più talentuose, ma le più fortunate. Nelle simulazioni, infatti, momenti di fortuna hanno permesso a alcuni di incrementare la ricchezza, mentre episodi di sfortuna ne hanno ridotto altre. I ricercatori hanno concluso che il massimo successo non coincide con il massimo talento, e viceversa, sottolineando che è la pura fortuna a determinare i risultati. Le persone di maggior successo sono semplicemente le più fortunate, mentre quelle meno fortunate risultano le meno riuscite.
Anche Robert Frank, docente alla Cornell University, ha esplorato il tema nel libro Successo e Fortuna (2016). Molti individui di successo, partiti da origini modeste, rifiutano l’idea che la fortuna abbia contribuito ai loro traguardi in quanto la considerano una diminuzione del valore del proprio lavoro e talento. Raccontano storie di impegno e capacità, ma faticano a ricordare episodi fortuiti, come una promozione ottenuta per un imprevisto, che hanno cambiato il corso della loro carriera. Lo scrittore del XVIII secolo Henry Fielding osservava che nella vita accadono eventi così strani da non poter essere spiegati solo con capacità personali. G.K. Chesterton, nel XX secolo, aggiungeva che più una coincidenza appare complessa, meno sembra casuale.
IL POTERE DELL’INNOCENZA
Perché talvolta il successo arriva senza sforzo? Perché nelle fiabe la fortuna premia gli ingenui, gli sciocchi o i pescatori? E se la fortuna non fosse casuale come si tende a credere? Nella letteratura popolare e nei proverbi antichi, il “fortunato” è spesso rappresentato come uno sciocco, un ingenuo o il più giovane di tre fratelli, privo delle ambizioni dei maggiori. Un esempio è nella raccolta Fiabe italiane di Italo Calvino (1956), dove un uomo semplice e credulone, viene abbandonato su un’isola da un capitano che lo disprezza. Senza rancore, l’uomo esplora l’isola e scopre per caso la figlia di un re, prigioniera di un gigante. La sua ingenuità e calma gli permettono di ottenere ciò che gli spetta per destino, mentre ciò che non gli appartiene resta irraggiungibile, anche inseguendolo.
Un personaggio simile si ritrova nel film Forrest Gump. La semplicità di Forrest, disabile e con limitazioni mentali, lo rende inadatto alla competizione moderna. Non sa difendersi né competere, ma accetta ogni difficoltà con serenità, agendo al meglio delle sue capacità. Affronta sfide e ruoli diversi — corridore, giocatore di football, soldato, imprenditore — senza combattere per il successo, che gli arriva come parte del suo destino.
Fin dai miti occidentali, il “fortunato” è spesso visto come beneficiario di un intervento divino. Boezio, filosofo romano del VI secolo, ne offre un esempio. Accusato ingiustamente di cospirazione, viene imprigionato e privato di tutto: famiglia, beni, status. Nella disperazione, trova conforto scrivendo. In carcere, gli appare una figura divina, “Madonna Filosofia”, che gli ricorda le verità della filosofia classica: gli esseri umani non controllano la maggior parte degli eventi della vita. La dea Fortuna, secondo i Romani, guida il destino e dona prosperità o disastri. Un filosofo non dovrebbe affidarsi ai doni di Fortuna, poiché il destino è fuori dal suo controllo. Boezio comprende che la razionalità non basta a spiegare il mondo, che resta governato da misteri superiori.
Nelle tradizioni religiose, occidentali e orientali, le azioni determinano la fortuna. Nelle religioni occidentali, le buone azioni portano ricompense, le cattive sventure. Nel buddismo, il karma opera in modo simile: le azioni di vite precedenti influenzano la fortuna o sfortuna attuale. Un grande successo deriva da buone azioni passate. E compiere cattive azioni genera conseguenze negative.
IL CAMBIAMENTO
Durante il Rinascimento, questa visione ha iniziato a mutare. Mitchell Kalpajian, esperto di letteratura inglese, nel libro The Virtues We Need Again (2012), spiega che Niccolò Machiavelli, autore de Il Principe, riduce Fortuna da dea a figura dominabile. Per Machiavelli, l’uomo non dipende dalla provvidenza, ma può plasmare gli eventi con astuzia e forza. Il sovrano ideale agisce con la volontà di potenza, superando i desideri umani e persino la volontà divina. Kalpajian paragona i machiavellici a giocatori d’azzardo, non a pescatori. Mentre l’ingenuo ottiene la fortuna senza astuzia, il giocatore cerca di superare gli avversari con l’inganno e senza rimorsi.
Dopo Machiavelli, l’Illuminismo etichetta la fortuna come superstizione. Il cardinale Richelieu, nel XVII secolo, elimina il termine “sfortuna” dal dizionario, considerandola il risultato di errori umani, non di misteri divini. Oggi, questa mentalità domina molti aspetti della vita. Kalpajian avverte che l’approccio machiavellico, pur recente nella Storia, è aggressivo e rischioso. La Fortuna non si può dominare, ma solo onorare, seguendo le sue regole: compiere buone azioni porta fortuna, le cattive sfortuna. Chi cerca di controllare il mondo rinnegando la compassione, usando la sola razionalità e ignorando la divina Provvidenza, rischia di fare una brutta fine quando i suoi bei piani falliscono. La lezione degli antenati resta valida: la Fortuna premia i puri di cuore e punisce i presuntuosi.
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