Ogni volta che Pechino annuncia misure per sostenere l’economia vacillante del Paese, fa riferimento a tassi di interesse più bassi e altre forme di allentamento monetario. Naturalmente, l’economia ha bisogno di più di un semplice aiuto monetario, ma anche su questo fronte la Banca Popolare Cinese non riesce a offrire un contributo significativo agli sforzi di stimolo economico necessari. La Banca quindi, sta semplicemente venendo meno ai suoi obblighi verso il regime.
A maggio, la Banca Popolare Cinese ha accolto la richiesta di Pechino per un allentamento monetario, ma lo sforzo che ha fatto è talmente piccolo che tanto valeva non fare nulla. L’unica misura adottata è stata quella di ridurre di appena 0,1 punti percentuali i tassi di interesse. All’inizio del mese ha applicato questo taglio minimo al tasso sui contratti di riacquisto, seguito più tardi da riduzioni della stessa entità al tasso di riferimento per i prestiti, il loan prime rate a un anno, e sui titoli a cinque anni.
Per un’economia che persino il Partito comunista cinese ammette aver bisogno di un aiuto urgente per stimolare la spesa dei consumatori e gli investimenti delle imprese, questi interventi possono essere definiti praticamente irrisori. Ma sono in linea con quanto accade da anni: dal 2021, quando la Banca Popolare Cinese ha iniziato a supportare gli sforzi di stimolo economico di Pechino, i responsabili della politica monetaria hanno ridotto i tassi di interesse di 0,8 punti percentuali, passando da un prime lending rate del 3,8% al 3,0%. Si tratta quindi di una riduzione media di 0,2 punti percentuali all’anno. Di conseguenza è difficile immaginare come un intervento così pigro possa spingere i prestatori cinesi a cambiare atteggiamento verso prestiti e finanziamenti. Per confronto, la Federal Reserve negli Stati Uniti, ha, di fronte a semplici segnali di indebolimento economico – ben lontani dai problemi che affliggono la Cina – tagliato i tassi di interesse americani di un intero punto percentuale tra settembre 2024 e febbraio 2025.
L’azione della Banca Popolare Cinese è perciò ancora meno comprensibile considerando poi che, in questo periodo, l’economia ha sviluppato una tendenza deflazionistica. Quando c’è inflazione, i mutuatari ripagano i prestiti con del denaro che vale meno in termini reali rispetto a quando lo hanno preso in prestito. Nel 2021, ad esempio, quando la Banca ha portato avanti i suoi deboli sforzi di stimolo monetario, l’inflazione media nazionale dei prezzi alla produzione era vicina al 10% annuo, consentendo a un mutuatario di ripagare con denaro che valeva il 10% in meno in termini reali. Con il prime lending rate al 3,8% annuo, quel mutuatario, anche dopo aver pagato gli interessi, era in vantaggio di oltre il 6% in termini reali. Era un forte incentivo a prendere prestiti e spendere o investire.
Da allora, però, l’inflazione dei prezzi alla produzione si è trasformata in una deflazione di quasi il 3% annuo. Ora i mutuatari devono ripagare i prestiti con fondi che valgono circa il 3% in più in potere d’acquisto rispetto all’anno precedente. Anche con i tagli ai tassi nel frattempo, il costo reale dei prestiti è salito a quasi il 6%. Questa realtà scoraggia prestiti, spese e investimenti. La Banca avrebbe dovuto portare i tassi sotto zero per recuperare parte dell’incentivo al prestito che esisteva nel 2021, ma i suoi sforzi appaiono ancora meno efficaci di quanto già suggeriscono i numeri.
In altre parole, la politica monetaria è diventata di fatto sempre più restrittiva, più che accomodante. La Banca Popolare Cinese ha quindi agito contro gli sforzi del Pcc per stimolare l’economia cinese e superare gli effetti negativi della crisi immobiliare e del calo di fiducia che l’ha accompagnata. Poiché i dazi di Trump e le minacce di ulteriori dazi hanno intensificato la necessità per le autorità cinesi di fornire più che mai uno stimolo economico, questo continuo fallimento della Banca Popolare Cinese è più deludente e pericoloso che mai.