In un mondo in bilico tra guerra e diplomazia, Roma torna a essere il palcoscenico di manovre strategiche decisive. Mentre l’opinione pubblica resta distratta da schermaglie di facciata, nella nostra capitale si giocano in questi giorni partite geopolitiche di enorme peso, capaci di ridefinire equilibri economici e di sicurezza.
Da un lato la questione Ucraina-Usa. Kiev ha firmato un memorandum d’intesa con Washington per avviare un accordo economico che, di fatto, consegnerà agli Stati Uniti l’accesso privilegiato alle immense risorse delle terre rare: grafite, litio, titanio e uranio. Materiali strategici per l’economia digitale e le nuove tecnologie, ma anche pedine preziose nella scacchiera della politica internazionale. Il primo ministro ucraino Denys Shmyhal quindi volerà a Washington per finalizzare l’intesa, mentre Zelensky, dopo una fase di resistenza, sembra aver ceduto di fronte alle pressioni americane. Non è ancora certo se l’accordo includerà le garanzie di sicurezza tanto sollecitate da Kiev per prevenire future aggressioni russe. Tuttavia, il messaggio politico risulta chiaro: l’Ucraina sta valorizzando le sue risorse strategiche nell’ambito di un accordo che rafforza la cooperazione e il sostegno degli Stati Uniti.
Nel frattempo, il 19 aprile 2025, sullo stesso tavolo romano si aprirà un nuovo capitolo della complessa partita diplomatica tra Stati Uniti e Iran. L’inviato presidenziale Steve Witkoff incontrerà il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi per discutere un possibile accordo che freni le ambizioni nucleari di Teheran. Un confronto rimesso in moto dal presidente Trump, determinato a riscrivere le regole del gioco abbandonate nel 2015, quando ha ritirato gli Stati Uniti dall’intesa siglata sotto Barack Obama. Ma la strada verso un nuovo patto appare irta di ostacoli, con Washington e Teheran su posizioni che, al momento, sembrano inconciliabili.
La mossa di Trump di abbandonare l’accordo del 2015, reintroducendo sanzioni e chiedendo un quadro più stringente, ha avuto conseguenze profonde. L’Iran, sentendosi svincolato dagli impegni presi, ha intensificato il proprio programma nucleare, accumulando, secondo la International Atomic Energy Agency, circa 275 chilogrammi di uranio arricchito al 60% – un passo preoccupante verso il 90% necessario per un’arma nucleare.
I colloqui romani seguono un primo incontro indiretto a Mascate, mediato dall’Oman, che ha messo in luce le divergenze tra le due parti. Witkoff ha insistito affinché l’Iran smantellasse il programma di arricchimento e militarizzazione nucleare, mentre Araghchi ha ribadito con fermezza il diritto di Teheran a continuare l’arricchimento dell’uranio, definendo tale punto «non negoziabile». Una posizione che non solo riflette la determinazione iraniana di mantenere una capacità tecnologica strategica, ma anche una certa diffidenza nei confronti delle intenzioni di Washington, accusata di inviare segnali contraddittori.
In questo contesto, le parole di Araghchi a Mosca, dove ha incontrato il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, lasciano intravedere un cauto spiraglio. Un accordo, ha dichiarato, potrebbe essere raggiunto se gli Stati Uniti dimostreranno «serietà» ed evitassero richieste irrealistiche. Dall’altro lato la Russia, sempre più vicina a Teheran dal 2022, si propone come mediatrice, un ruolo che potrebbe complicare o facilitare il dialogo a seconda delle circostanze. E la sfida di Trump si delinea titanica. Da un lato, cerca di imporre un accordo che soddisfi la sicurezza internazionale, evitando che l’Iran diventi una potenza nucleare. Dall’altro, deve gestire un contesto geopolitico in cui l’Iran si muove con crescente autonomia, forte di alleanze strategiche e di una versione che lo dipinge come vittima di un Occidente ostile.
La domanda cruciale è se la linea decisa di Washington possa davvero piegare Teheran o se, al contrario, rischi di radicalizzare ulteriormente le posizioni iraniane. Un accordo credibile richiederà compromessi da entrambe le parti: per gli Stati Uniti, accettare che l’Iran mantenga un programma nucleare civile sotto stretto controllo internazionale; per Teheran, garantire trasparenza e limiti rigorosi che dissipino le preoccupazioni legate alla diffusione di armi nucleari.
Il dato politico più interessante è che queste trattative avvengono tutte sotto la regia discreta, ma determinata, degli Stati Uniti. È Washington che detta tempi, condizioni e priorità, mentre gli altri — Kiev e Teheran comprese — si trovano ad adattarsi a un contesto di negoziazione che richiede compromessi reciproci. L’Italia, dal canto suo, si ritaglia il ruolo di facilitatore, offrendo il proprio territorio come sede neutrale di un confronto che riguarda direttamente anche gli equilibri energetici e di sicurezza dell’intera Europa.
È un quadro che conferma come la geopolitica reale si giochi lontano dai riflettori e dai social, nelle stanze ovattate delle capitali, dove le dichiarazioni ufficiali valgono poco e i memorandum d’intesa segnano la strada dei prossimi conflitti e delle future alleanze.
Roma, dunque, torna ad avere un ruolo centrale nella diplomazia mondiale: un crocevia dove si intrecciano le grandi questioni del nostro tempo, come la gestione delle risorse strategiche, le ambizioni nucleari di potenze regionali, le fragili tregue nei conflitti dimenticati. Da una parte gli Stati Uniti d’America tentano di rimettere ordine nel disastro ucraino, dall’altra cercano di evitare che la polveriera mediorientale esploda definitivamente. Una partita molto difficile e di importanza cruciale per il futuro del mondo intero. Una partita che Donald Trump ha deciso di giocare a Roma.