Il Pcc non sa risolvere la crisi economica cinese

di Milton Ezrati per ET USA
27 Giugno 2025 9:05 Aggiornato: 27 Giugno 2025 9:05

Mentre il regime cinese combatte la guerra commerciale con l’America, deve anche fare i conti con la crisi dell’economia cinese. Ben dei dazi, dopo la pandemia, l’economia cinese ha iniziato a subire una raffica di eventi negativi, prima fra tutti la crisi del settore immobiliare, che però è solo il problema più evidente. Questi problemi, che sono strutturali, dell’economia cinese rimarranno anche nell’ipotesi (improbabile) che Cina e Stati Uniti riescano a appianare le loro divergenze commerciali.

I consumatori sono una componente cruciale di quello che ormai si può senz’altro definire il secondo fallimento (dopo quello di Mao Zedong) dell’economia comunista cinese. Per sostenere la crescita, la Cina necessiterebbe di un settore di consumi molto più forte, per compensare il calo delle esportazioni, che per venticinque anni sono state il motore della crescita economica cinese. Una necessità, quella di “stimolare” la domanda interna, sollecitata per anni dal Fondo monetario internazionale. Il Partito comunista cinese ha ovviamente riconosciuto questa necessità e, negli ultimi due anni, ha cercato di stimolare i consumi. Ma finora con scarsi risultati.

La crisi immobiliare è senza dubbio il fattore più significativo, ma non l’unico, che frena i consumatori. Il problema è esploso nel 2021, quando alcune delle principali imprese di sviluppo immobiliare residenziale hanno iniziato a fallire. Questi tracolli non solo hanno bloccato un settore che contribuiva in modo determinante al progresso economico cinese, ma hanno avuto anche altre ripercussioni. In particolare, hanno limitato la capacità del sistema finanziario cinese di sostenere altri comparti dell’economia, come gli investimenti e il sostegno economico offerto in precedenza dai governi locali. I fallimenti hanno colpito le famiglie cinesi in due modi.

In primo luogo, l’interruzione delle attività edilizie ha significato che milioni di cittadini, che avevano pagato in anticipo per acquistare appartamenti, non avrebbero mai potuto entrarne in possesso. Queste famiglie hanno immediatamente ridotto i consumi, mentre il rifiuto di pagare i mutui ha aggravato le difficoltà del sistema finanziario. Più in generale, i fallimenti e l’improvvisa battuta d’arresto dell’immobiliare residenziale hanno fatto crollare il valore degli immobili. Questo fenomeno, iniziato nel 2021, è peggiorato nel tempo, con i prezzi delle case esistenti che nell’ultimo anno sono scesi dell’8,6%. Poiché per la maggior parte dei cinesi la casa rappresenta la principale fonte di “ricchezza”, questo calo ha ridotto la propensione alla spesa tra le classi lavoratrici e medie.

Ma non è solo la crisi immobiliare a pesare sui consumatori cinesi. I lockdown e le quarantene imposti durante la pandemia di Covid-19, specialmente quelli derivanti dalla politica “zero-Covid” di Pechino, protrattasi per anni dopo la fine dell’emergenza, hanno interrotto redditi e modalità di lavoro in tutto il Paese, lasciando un’eredità di insicurezza lavorativa ed economica che persiste ancora oggi.

Di conseguenza, molti cinesi esitano a spendere. A rafforzare questa cautela contribuisce il rallentamento generale della crescita economica cinese. Negli ultimi tempi, il ritmo di crescita si è dimezzato rispetto al passato, distruggendo la fiducia che i cinesi riponevano in un futuro con più occupazione, redditi più alti, maggiore ricchezza e maggiori opportunità di spesa e risparmio.

Gli sforzi di Pechino per rilanciare la spesa delle famiglie hanno finora ottenuto successi limitati. La crescita dei consumi è leggermente aumentata di recente rispetto all’anno scorso e ai primi mesi di quest’anno, ma l’incremento del 6,4% registrato a maggio rispetto all’anno precedente, pur migliore del 4,7% medio dei primi quattro mesi, resta ben al di sotto dei livelli più robusti pre-pandemici e di ciò che Pechino necessita per trasformare i consumatori nel nuovo motore di crescita al posto delle esportazioni. Queste ultime, infatti, hanno subito un duro colpo. All’inizio dell’anno si era registrato un breve rilancio, poiché gli acquirenti americani avevano accumulato scorte in previsione dei dazi annunciati da Trump. Ma quel picco si è esaurito, anche perché attualmente gli Stati Uniti detengono un vasto inventario invenduto di merci cinesi.

Le esportazioni verso gli Stati Uniti sono crollate di quasi il 35% a maggio rispetto all’anno precedente. Le vendite verso il resto dell’Asia sono invece cresciute del 5% nello stesso periodo, ma è un aumento insufficiente a compensare il calo degli acquisti americani. I dazi, sebbene temporaneamente sospesi, hanno influito sulle vendite negli Stati Uniti, ma la maggior parte del calo riflette le conseguenze dell’accumulo di scorte precedenti.

Anche nell’eventualità che la questione dei dazi trovi una soluzione amichevole, Pechino è consapevole del fatto che il vecchio motore di crescita delle esportazioni ormai è spento. Molto prima che Trump assumesse la presidenza e iniziasse a parlare di dazi elevati, gli americani avevano già iniziato a ridurre gli acquisti dalla Cina, in parte per l’ostilità crescente di Washington verso il commercio con la Cina.

I governi europei, pur meno espliciti degli americani, stanno mostrando crescenti sospetti verso la Cina e una riluttanza sempre maggiore a commerciare. Questi sviluppi hanno spinto acquirenti americani ed europei a cercare fonti alternative. Anche l’eredità della politica “zero-Covid” ha avuto un ruolo. I lockdown e le quarantene imposti durante e dopo la pandemia hanno interrotto i flussi commerciali al punto da compromettere la reputazione di affidabilità della Cina, convincendo ulteriormente gli acquirenti occidentali a diversificare le loro fonti di approvvigionamento.

La Cina non può nemmeno contare sugli investimenti delle imprese per colmare il vuoto lasciato da consumatori riluttanti ed esportazioni in calo. Secondo le ultime rilevazioni, gli investimenti sia delle imprese “private” sia di quelle in mano al regime sono cresciuti solo del 3,7% rispetto all’anno scorso. Se Pechino vuole che l’economia ritrovi il suo antico slancio o raggiunga l’obiettivo di crescita reale del 5% per quest’anno, avrà bisogno di investimenti molto più consistenti. Ma stimolare l’attività in questo settore è una sfida ardua. Le incertezze legate al commercio hanno reso le imprese cinesi, specialmente quelle private, restie a impegnare fondi per espansione e modernizzazione. Il rallentamento generale della crescita economica e le conseguenze delle interruzioni causate dalla pandemia e dalle misure “zero-Covid” hanno avuto effetti negativi simili.

C’è poi un altro aspetto, meno notato dai giornalisti: non molto tempo fa, Xi Jinping ha accusato gli imprenditori privati di preoccuparsi più dei profitti che del volere del Partito comunista cinese. Quella minaccia implicita, ma grave, ha immediatamente spinto a riconsiderare i piani di espansione. Xi, sentendo il peso dei problemi economici del Paese, ha successivamente cambiato tono, definendo gli imprenditori «parte della nostra gente». Tuttavia, la memoria degli imprenditori è lunga e, consapevoli che Xi potrebbe in un attimo tornare al suo approccio precedente, sono riluttanti a rischiare capitali.

Poiché in passato li regime non è riuscito a invertire la rotta su nessuno di questi problemi, si trova in una posizione di svantaggio nei negoziati commerciali con Washington, e le autorità cinesi si percepiscono sotto pressione, anche in assenza dei dazi e delle altre misure americane. Il Pcc, insomma, è nei guai.


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