Il recente conflitto di dodici giorni tra Iran e Israele, seguito dai raid statunitensi contro alcuni impianti nucleari iraniani, ha creato per Xi Jinping una situazione strategicamente delicata, ben diversa rispetto alle precedenti crisi in Medio Oriente.
Pechino non aveva un interesse diretto né nella guerra tra Israele e Hamas né nel conflitto in Ucraina, quindi ha mantenuto una parvenza di neutralità, pur sostenendo economicamente Mosca. Al contrario, la crisi iraniana ha posto una minaccia concreta alla sicurezza energetica cinese e agli interessi economici nella regione. A livello internazionale, la Cina ha fatto investimenti elevati – spesso nell’ambito della Nuova Via della Seta – in aree ricche di risorse ma politicamente instabili, come l’Africa e la Birmania. Tuttavia, Pechino tende a evitare qualsiasi coinvolgimento militare diretto, limitandosi ad aiuti economici o forniture di armi.
Uno degli ostacoli principali che impedisce al regime cinese di affermarsi come vera superpotenza è la sua riluttanza a assumere un ruolo guida nelle questioni di sicurezza internazionale, o a dispiegare “l’Esercito popolare di liberazione” al di fuori dei propri confini. Secondo alcuni analisti, questa cautela riflette le lezioni apprese da Pechino osservando gli errori compiuti dagli Stati Uniti in Vietnam e in Afghanistan. Alla nota reticenza cinese di intervenire in guerre straniere si è aggiunta, in questo caso, una complicazione ulteriore: il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti. Per anni, Taiwan è stata considerata il punto più probabile di scontro tra le due potenze. Un eventuale conflitto sull’isola comporterebbe sia ricadute economiche sia conseguenze politiche per il Partito comunista cinese, con Xi determinato a rafforzare il proprio lascito storico attraverso la “riunificazione” del Paese, benché Taiwan non abbia mai fatto parte della Repubblica popolare cinese.
Gli interessi cinesi in Iran, invece, sono principalmente economici, e dunque assai meno rilevanti sul piano strategico, tanto da non giustificare – almeno per il momento – una contrapposizione diretta con Washington, pur nel quadro della crescente intesa tra Cina, Russia e Iran. Tuttavia, Pechino non può permettersi di abbandonare Teheran. La Cina dipende dal petrolio iraniano, ha effettuato ingenti investimenti nell’area e considera la posizione geografica dell’Iran di rilevanza strategica. Ciò obbliga il Pcc a un difficile esercizio di equilibrio: difendere i propri interessi senza lasciarsi trascinare in un conflitto più ampio.
I rapporti tra Cina e Iran sono fondati principalmente sulla questione energetica. Teheran esporta verso la Cina circa 43 milioni di barili di petrolio al mese, pari a oltre il 90 per cento delle esportazioni iraniane di greggio e al 13,6 per cento delle importazioni petrolifere cinesi. Questi flussi proseguono nonostante le sanzioni statunitensi, spesso attraverso triangolazioni con Paesi terzi. Un eventuale protrarsi del conflitto tra Israele e Iran, con il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti, avrebbe potuto compromettere seriamente la produzione e le esportazioni di petrolio iraniano. A peggiorare ulteriormente il quadro, è intervenuta la decisione del parlamento iraniano di votare a favore della chiusura dello Stretto di Hormuz, in risposta agli attacchi aerei statunitensi, in attesa della ratifica da parte del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale iraniano.
Lo Stretto di Hormuz rappresenta un passaggio marittimo cruciale tra il Golfo Persico e il Golfo dell’Oman, attraverso cui transita circa il 20 per cento delle forniture mondiali di petrolio e gas naturale liquefatto. Per Pechino, una chiusura dello stretto comporterebbe conseguenze gravi: non solo verrebbero interrotte le forniture iraniane, ma anche le importazioni di greggio e gas liquido provenienti da altri Paesi arabi. Oltre il 30 per cento del gas naturale liquefatto che la Cina acquista da Qatar ed Emirati Arabi Uniti attraversa proprio quel tratto di mare, rendendo ogni interruzione un pericolo diretto per la sicurezza energetica cinese.
Nonostante i solidi legami sul piano energetico, gli investimenti cinesi in Iran restano limitati: meno di 5 miliardi di dollari dal 2007. Una cifra ben lontana dai quasi 15 miliardi investiti in Arabia Saudita nello stesso periodo (fino al 2024), o dagli oltre 8 miliardi stanziati negli Emirati Arabi Uniti tra il 2013 e il 2022. Sebbene Pechino abbia firmato accordi importanti per la realizzazione di oleodotti, raffinerie e infrastrutture, molti di questi progetti sono rimasti bloccati a causa delle sanzioni internazionali e di difficoltà nei finanziamenti.
Nel frattempo, la Cina ha consolidato la propria presenza economica in tutta l’area del Golfo Persico, dove gli scambi con i Paesi arabi hanno superato i 400 miliardi di dollari nel 2024. Tutti e 22 i membri della Lega araba aderiscono alla Nuova Via della Seta. Un’eventuale guerra tra Iran e Stati Uniti metterebbe dunque a rischio non solo le forniture energetiche verso la Cina, ma l’intero impianto degli interessi economici cinesi nella regione.
Teheran riveste inoltre un ruolo chiave nella strategia cinese di costruire un ordine internazionale alternativo a quello dominato da Washington. Sebbene Pechino difficilmente interverrà a difesa dell’Iran con mezzi militari, vuole scongiurarne il crollo politico, considerandolo un alleato strategico all’interno di organizzazioni come Brics e l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, entrambe funzionali alla visione cinese di un sistema di sicurezza non occidentale. I due Paesi hanno formalizzato il loro partenariato con un accordo di cooperazione venticinquennale nel 2021, ma gli investimenti cinesi restano prudenti per il timore di subire contraccolpi dalle sanzioni.
Come già accaduto in occasione della guerra in Ucraina e del conflitto a Gaza, Pechino ha sfruttato anche la crisi tra Israele e Iran per rafforzare il proprio messaggio centrale: l’ordine internazionale guidato dagli Stati Uniti è instabile, fazioso e in declino. Questo messaggio è stato rilanciato durante l’incontro tra i ministri della Difesa dei Paesi membri dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, tenutosi a Qingdao, in Cina, in concomitanza con un vertice della Nato. Una contrapposizione simbolica tra due visioni internazionali: da un lato, l’Occidente a guida statunitense; dall’altro, l’ordine emergente promosso da Pechino.
Nel corso del vertice, il ministro della Difesa cinese Dong Jun ha denunciato il comportamento «egemonico» degli Stati Uniti, sostenendo un modello alternativo di sicurezza proposto da Pechino. Il ministro della Difesa iraniano Aziz Nasirzadeh, alla sua prima visita all’estero dopo il conflitto con Israele, ha ringraziato la Cina per il sostegno e l’ha esortata ad assumere un ruolo più attivo nel mantenimento del cessate il fuoco e della stabilità regionale.
Benché la Cina abbia criticato l’attacco israeliano contro esponenti iraniani e i successivi bombardamenti statunitensi contro tre siti nucleari iraniani, la sua reazione si è limitata a dichiarazioni ufficiali, senza alcuna iniziativa concreta di mediazione. Una linea che conferma la tendenza del Pcc a pronunciarsi con fermezza sul piano verbale, evitando però di assumersi responsabilità effettive nella risoluzione dei conflitti.
Ma la crisi in Medio Oriente potrebbe offrire a Pechino nuove opportunità strategiche. Con l’attenzione statunitense rivolta al fronte mediorientale, il regime cinese potrebbe intensificare le proprie iniziative in altre aree, in particolare nel Mar Cinese Meridionale, dove ha recentemente aumentato l’attività navale e aerea. Approfittando della distrazione di Washington, Pechino guadagna margini d’azione nelle proprie aree d’interesse strategico, presentandosi al tempo stesso come un’alternativa più stabile alla leadership occidentale.
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