Aldo Moro è stato molto più di un normale politico: era uno statista (termine ormai caduto in disuso) e una delle figure centrali della politica italiana del dopoguerra, insieme a Pietro Nenni, Palmiro Togliatti e Alcide de Gasperi. Ma è stato anche la vittima più tragica e illustre degli anni di Piombo. Due volte presidente del Consiglio e artefice di riforme cruciali, la sua vita si è intrecciata con i successi e le ferite di un’Italia in trasformazione.
Aldo Moro è stato uno dei più grandi leader della Democrazia Cristiana, la “Balena Bianca”, il partito di centro che riuniva in una formazione politica relativamente coesa dietro lo Scudo cattolico, i moderati di centrodestra e di centrosinistra, e che ha governato l’Italia per quarant’anni, fino alla “rivoluzione giudiziaria” di Mani Pulite del 1992.
GLI INIZI
Nato il 23 settembre 1916 a Maglie, in Puglia, Moro era figlio di un ispettore scolastico e di una maestra. Si era laureato in giurisprudenza all’Università di Bari, dove poi aveva insegnato diritto penale. Durante la Seconda guerra mondiale si era avvicinato alla resistenza antifascista e aveva subito un breve arresto nel 1943 per le sue attività clandestine. Dopo la guerra era entrato nella Dc, partito che avrebbe guidato l’Italia per decenni, eletto alla Camera dei deputati nel 1948. La sua ascesa era stata rapida: sottosegretario al Commercio (1953-1955), ministro del Commercio (1955-1957), delle Finanze (1957-1958), del Tesoro (1958-1959) e degli Interni (1959-1963).
IL PRIMO MANDATO E LE RIFORME
Nel 1963 era diventato presidente del Consiglio, alla guida di un governo di coalizione Dc e Partito Socialista Italiano (Psi), un’alleanza storica che aveva segnato l’apertura al centrosinistra, il tratto distintivo della sua visione politica: il Compromesso storico col segretario del Partito comunista italiano, Enrico Berlinguer, che gli sarebbe costato la vita di lì a non molti anni.
Durante il suo primo mandato (1963-1968), aveva promosso il Piano Vanoni, un progetto ambizioso per ridurre il divario tra Nord e Sud, e aveva consolidato l’ingresso dell’Italia nella Comunità Economica Europea nel 1964, rafforzando il ruolo del nostro Paese in Europa. «Voglio un’Italia più giusta e moderna» diceva.
Dopo un periodo in cui aveva ricoperto solo la carica di presidente della Dc, Moro era tornato a Palazzo Chigi dal 1974 al 1976, in un contesto segnato dalla crisi energetica e dall’ascesa del terrorismo. La sua capacità di mediare tra fazioni politiche opposte lo aveva reso una figura indispensabile, ma anche un bersaglio. Nel 1976 era stato eletto Presidente del Senato, un ruolo che lo aveva consacrato come uno degli statisti più influenti dell’epoca.
IL RAPIMENTO E L’OMICIDIO
La mattina del 16 marzo 1978 Moro è accompagnato dal suo autista a Montecitorio; è un giorno di importanza storica. In un’Italia dilaniata dalla Strategia della Tensione, che da dieci anni insanguina il Paese, Moro sta andando in Parlamento per il voto di fiducia al (quarto) governo “monocolore” Andreotti: un Consiglio di ministri tutti democristiani ma sostenuto anche dai voti del Pci di Berlinguer. Il compromesso storico sta per realizzarsi: i comunisti stanno per andare al governo (seppure in modo indiretto). È il primo passo verso la riconciliazione nazionale, che nelle intenzioni dovrebbe mettere fine al clima di guerra civile che permane dalla fine della Seconda guerra mondiale. Ma non succederà nulla di tutto questo.
La Fiat 130 di Aldo Moro e l’Alfetta su cui viaggiano gli agenti di polizia che lo scortano, vengono bloccate in via Fani, nel quartiere della Camilluccia a Roma, da un commando (ufficialmente) capitanato dai brigatisti rossi Mario Moretti e Valerio Morucci. L’assalto costa la vita a cinque agenti della scorta che, colti di sorpresa, non hanno modo di rispondere al fuoco incrociato del commando dei terroristi, che per rapire Moro mettono in atto un blitz fulmineo, in tutto e per tutto simile a un’operazione militare. Gli agenti di Ps Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera, Francesco Zizzi vengono massacrati dal commando terrorista in pochi secondi. Ma, a dimostrazione della “professionalità” del commando, Aldo Moro non viene ferito nemmeno di striscio: lui serve vivo e illeso.
L’Italia è incredula e sconvolta. Per 55 giorni, le Brigate Rosse tengono prigioniero Aldo Moro in una cosiddetta “prigione del popolo” (in realtà un appartamento in via Camillo Montalcini a Roma). Per tutto il periodo, lo sottopongono a un estenuante interrogatorio, pretendendo da lui dei “segreti” politici di cui lo considerano depositario.
Le Br chiedono anche la liberazione di diversi terroristi detenuti, in cambio della sua vita. Il governo Andreotti sceglie la linea dura e rifiuta ogni trattativa: «Non si tratta con i terroristi» dichiara Andreotti. Una posizione tutt’altro che unanime, nel suo stesso partito.
Durante la prigionia, Moro scrive diverse lettere accorate, alcune indirizzate a Papa Paolo VI, implorando una mediazione: «Vi prego, fate qualcosa per salvarmi».
Ma il 9 maggio 1978, dopo un “processo” farsa inscenato dalle Brigate Rosse, viene “condannato a morte”, e assassinato a sangue freddo con undici colpi di pistola dal capo delle Br Mario Moretti, che confesserà anni dopo.
Il corpo di Aldo Moro verrà poi ritrovato, dopo una telefonata a Nicola Rana (assistente di Moro) fatta da Valerio Morucci, nel bagagliaio di una Renault 4 rossa parcheggiata nel pieno centro di Roma, in via Caetani. L’auto è simbolicamente posizionata a metà strada fra le sedi della Dc (piazza del Gesù) e del Pci (via delle Botteghe Oscure).