I “veterani” di Wall Street consigliano spesso ai clienti di «seguire i capitali avveduti». In sostanza, suggeriscono di emulare i ricchi, che presumibilmente hanno accumulato le loro fortune grazie a una certa intelligenza o a consulenze sagge. In questo momento, proprio questi capitali avveduti in Cina stanno segnalando a se stessi e a Pechino una crescente perdita di ottimismo sull’economia nazionale. Tale mancanza di fiducia rappresenta di per sé un ostacolo agli sforzi del governo per rilanciare l’economia. Le prove di questi atteggiamenti controproducenti emergono da numerose fonti. L’Ufficio nazionale di statistica di Pechino, ad esempio, riferisce che a maggio – l’ultimo periodo per cui sono disponibili i dati – l’indice di fiducia dei consumatori si attestava a 88 punti, poco al di sopra del minimo di 85 toccato nel novembre 2022, quando la società cinese era ancora alle prese con i lockdown e le quarantene imposti dalle misure zero-Covid.
Ancora più indicative sono le conclusioni di un recente sondaggio condotto dalla rinomata società di consulenza Oliver Wyman. Su un campione di duemila nuclei familiari cinesi con un reddito annuo di almeno 360mila yuan (circa 50.160 dollari), l’indagine ha rivelato che un quarto degli intervistati nutre un profondo pessimismo sulle prospettive dell’economia cinese. Sebbene ciò implichi che i tre quarti rimanenti siano meno negativi, la quota di chi vede nero è comunque rilevante, e risulta leggermente peggiore rispetto ai risultati dell’ottobre 2022, nel pieno delle restrizioni zero-Covid.
Interrogati sulle prospettive economiche per i prossimi cinque anni, gli intervistati di quest’anno si sono mostrati ancor meno ottimisti rispetto al 2022. Un aspetto ancor più preoccupante emerso dal sondaggio è che i giovani cinesi abbienti – ovvero i benestanti urbani tra i 18 e i 24 anni – sono i più pessimisti tra tutti i gruppi. Questo segmento ha motivato il proprio scetticismo principalmente con il concetto di «disparità di opportunità». A differenza dell’ossessione americana per l’uguaglianza tra gruppi identitari, in Cina tale espressione si riferisce alle fasce d’età. È significativo che questa preoccupazione sia salita negli ultimi anni al primo posto tra le priorità, dal sesto che occupava solo pochi anni fa. Una situazione tutt’altro che sorprendente, considerando che la disoccupazione giovanile in Cina oscilla intorno al 15 per cento, contro circa il 5 per cento dell’intera forza lavoro. Un pessimismo così diffuso non può certo essere una buona notizia per i pianificatori a Pechino.
Poiché le esportazioni cinesi verso l’Occidente e il Giappone incontrano già limitazioni, e gli Stati Uniti minacciano dazi che probabilmente le ostacoleranno ulteriormente, le autorità hanno un bisogno urgente di stimolare la spesa interna, in particolare quella dei consumatori. Eppure, questo sondaggio evidenzia che le persone, soprattutto i giovani con mezzi, rimangono guardinghi sul futuro e, di conseguenza, tendono a frenare i consumi. Tale pessimismo relativo spiega in gran parte perché gli sforzi delle autorità per incentivare un maggiore livello di spesa siano in larga misura falliti negli ultimi 12-18 mesi, perché gli ultimi dati sulle vendite al dettaglio a giugno mostrano ancora un tasso di crescita annuo inferiore al 5 per cento, e perché questi fattori complicano ulteriormente l’urgente missione di Pechino di rimettere in carreggiata l’economia cinese.
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