I brevetti sono un freno all’innovazione

di Jeffrey A. Tucker per ET USA
23 Aprile 2025 15:53 Aggiornato: 23 Aprile 2025 15:53

Anni fa, quando c’erano diverse dispute in merito ai brevetti, ho chiacchierato con un imprenditore che aveva fondato e venduto quattro aziende. Stava lavorando a un nuovo progetto che sembrava promettente (chissà, magari ha già venduto pure quello). Eravamo appena usciti da una conferenza in cui un relatore sosteneva che la chiave del successo aziendale oggi è possedere brevetti, e che senza di essi, nessuna impresa può farcela.

Ho chiesto all’imprenditore cosa ne pensasse. La sua risposta secca: «Non mi sono mai preoccupato dei brevetti. Costano un occhio e non servono a niente. Non generano profitti da soli, non vendono prodotti o servizi, al contrario, frenano lo sviluppo, intrappolando l’azienda su dei binari prestabiliti. Io, come imprenditore, ho bisogno di adattarmi e cambiare offerte giorno per giorno. I brevetti invece spingono a restare aggrappati a vecchie soluzioni, anche quando non funzionano più».

Il suo è un punto di vista intrigante, e fa sorgere una domanda legittima: quanto c’entrano i brevetti con l’innovazione nel mondo reale? L’idea comune è che un’invenzione debba essere prima brevettata, con una tutela legale che dura anni, altrimenti la ricerca e sviluppo su quell’idea non avrebbero senso. Ma la realtà è ben diversa.

Elon Musk, anni fa, ha preso una posizione importante in merito, rinunciando ai brevetti per Tesla, salvo rare eccezioni per bloccare gli speculatori di brevetti. Tesla e le sue tecnologie non sono brevettate, e X si basa letteralmente su software open source. Jack Dorsey, fondatore di Twitter, è andato oltre, suggerendo di abolire del tutto la proprietà intellettuale, brevetti e forse addirittura, anche il copyright.

Sembra una cosa folle vero? Ma non è proprio così. Sono anni ormai che pubblico i miei lavori in modalità “open access”, e funziona per tutti: autori, editori e lettori. Si possono ricavare profitti come sempre, ma senza inutili leggi e norme che bloccano i contenuti per decenni. Prendiamo i libri come esempio: migliaia di opere pubblicate tra il 1930 e la fine del secolo sono introvabili, e la loro ristampa è vietata per via di alcune leggi, dimenticate dagli eredi e trascurate dagli editori che ne detengono i diritti. Nessuno può farci niente.

I brevetti sono ormai una piaga per molte industrie, e l’epoca in cui premiavano il grande inventore è finita. Oggi esiste un mercato di compravendita di brevetti che sembra una vera e propria estorsione legalizzata, con  3 mila/4 mila nuove cause ogni anno. Sicuramente questo arricchisce più gli avvocati che gli inventori. Questo è il motivo per cui sempre più aziende stanno abbandonando i brevetti.

Gli storici esperti in economia spesso collegano brevetti a innovazione, basandosi sui registri dell’Ufficio Brevetti. Molto di ciò che crediamo di sapere infatti – come Eli Whitney che ha inventato la sgranatrice di cotone, che i fratelli Wright sono stati i primi a volare, che Thomas Edison detiene il record di invenzioni per i suoi brevetti – viene da lì. Ma le cose stanno davvero così? Chi possiede brevetti lo dà per scontato e li difende a spada tratta, usandoli come arma per spaventare i concorrenti.

Ma quanto contano davvero i brevetti per l’innovazione? Poco, secondo quattro economisti dell’Università Tecnica di Lisbona. Il loro studio ha analizzato le migliori innovazioni tra il 1977 e il 2004, premiate dalla rivista Research and Development, confrontandole con i registri dei brevetti. Risultato? il 90% di queste innovazioni non era brevettato. Queste idee sono state concepite e messe poi sul mercato, e hanno cambiato il mondo senza bisogno di scartoffie legali. In altre parole, è il mercato, non la burocrazia, a innovare.

Gli autori riconoscono che alcune versioni successive di quelle innovazioni potrebbero essere state brevettate, ma questo non cambia il succo del discorso: l’Ufficio Brevetti non ha un ruolo significativo nell’innovazione. Scavando tra le fonti dell’Ufficio, emergono altri dati interessanti: studi simili, dal primo Novecento fino a metà Ottocento, arrivano alla stessa conclusione. I brevetti esistono e le innovazioni pure, ma non c’è un vero e proprio legame tra loro.

È il classico divario tra scienza popolare e scienza vera. Uno sogna un’idea, registra un brevetto, la produce e diventa miliardario. Nella realtà dei fatti però, il 90% delle idee non vengono brevettate, e alla fine i brevetti vanno bene per appenderli al camino. I brevetti attivi sono usati dai colossi come una mazza per colpire i concorrenti, non per far crescere il business, ma per mantenere il dominio. Più un’azienda è grande, più compra brevetti, scatenando poi una serie di cause legali che durano anni e si chiudono con ingenti risarcimenti di denaro.

I brevetti non fanno progredire l’innovazione, anzi, la rallentano. Finché un brevetto esiste, le altre idee successive vengono bloccate, impedendo all’opera di evolversi. Pensiamo ai brevetti farmaceutici, che negli ultimi anni hanno creato enormi problemi, con interessi finanziari intrecciati a diversi enti governativi. Durante il Covid, molti farmaci non brevettati sono stati messi da parte a favore di nuovi prodotti brevettati, spesso dalla dubbia efficacia, favoriti da decreti burocratici che premiavano la “novità” rispetto a un farmaco collaudato.

I brevetti hanno anche spinto verso un’agricoltura intensiva con insetticidi chimici, fertilizzanti e cibi Ogm, mettendo al margine i metodi tradizionali. L’agricoltura biologica, che non usa brevetti, è in realtà, proprio ciò che molti consumatori cercano oggi.

Nel campo software, negli anni ’70 e ’80, i brevetti erano rarissimi. Le aziende guadagnavano creando e vendendo, come dovrebbe essere nel libero mercato. Poi l’industria è cresciuta, e figure come Steve Jobs, che si vantava di «rubare» idee, hanno iniziato a minacciare citazioni in giudizio. I giovani programmatori sanno che, se inventano qualcosa che sfida un colosso tecnologico, verranno immediatamente schiacciati.

Negli ultimi vent’anni, il software ha seguito due strade: una iper-protetta dai brevetti, l’altra open source. I risultati parlano chiaro. Lo studio di Octoverse del 2024 su GitHub mostra oltre 90 milioni di sviluppatori che collaborano a progetti open source, mentre il software brevettato è ormai stato messo a parte. L’open source alla fine ha vinto, senza alcun dubbio.

Dobbiamo ripensare al ruolo dei brevetti nell’innovazione. Se non innovano nulla e, anzi, non fanno altro che rallentare il progresso, perché non abolirli? È ciò che proponevano molti liberali dell’Ottocento. La cosiddetta «proprietà intellettuale» è già storicamente problematica. La proprietà esiste per risolvere conflitti su beni scarsi. Le idee, invece, sono infinite e condivisibili senza togliere nulla a nessuno.

Come si è arrivati a considerare le idee come proprietà? È una storia affascinante, legata agli sforzi post-feudali di preservare monopoli industriali, come quello della stampa. Ma è un racconto per un altro articolo, ben approfondito dallo storico Stephan Kinsella, che ha appena pubblicato un nuovo libro sull’argomento. Questo tema è molto complesso e merita più di un breve articolo. Per me, ci sono voluti cinque anni di riflessioni per capirne le implicazioni.

Se quello che ho scritto vi ha sconvolto, lo posso capire.
Ma riflettete: cosa rende un bene o un servizio degno di essere chiamato proprietà privata? È una domanda fondamentale da porsi. Pensateci bene. Potreste scoprire, come molti innovatori, che i brevetti sono un ostacolo, e non un aiuto per l’innovazione.

 

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