Come Khamenei spera di salvarsi dalla guerra con Israele

di Yoni Ben Menachem per Epoch Israele
24 Giugno 2025 12:13 Aggiornato: 24 Giugno 2025 12:13

Il conflitto attuale tra Iran e Israele non rappresenta il primo coinvolgimento militare della Repubblica Islamica dalla Rivoluzione del 1979 e dall’adozione del principio del Wilayat al-Faqih (“governo del giureconsulto”), secondo cui un giurista islamico guida lo Stato in qualità di vicario in attesa del ritorno dell’Imam, Muhammad al-Mahdi. Nel corso degli anni, l’Iran ha partecipato direttamente alla guerra contro l’Iraq per otto anni e ha impiegato la forza militare a sostegno del regime di Bashar al-Assad durante la guerra civile siriana iniziata nel 2011. Ha inoltre esteso la propria influenza nella regione, creando una rete di formazioni armate che riconoscono la sua autorità e agiscono sotto il suo controllo. Anche le organizzazioni sunnite come Hamas e la Jihad Islamica sono state inquadrate in questa strategia d’influenza.

Ma nel conflitto in corso, la strategia adottata dalla Guida Suprema Ali Khamenei ha mostrato segnali di fallimento. L’assenza di un’azione coordinata di Hezbollah contro Israele il 7 ottobre 2023 è stata giustificata con la volontà di evitare un’escalation che avrebbe potuto coinvolgere direttamente l’Iran in un conflitto su larga scala. Secondo fonti militari israeliane, tale scelta si è rivelata un errore strategico, comportando la perdita di una delle risorse più efficaci nella deterrenza nei confronti di Israele.
Attualmente, l’Iran può contare quasi esclusivamente sul sostegno degli Houthi in Yemen. Hezbollah risulta isolato a causa del conflitto interno con le autorità libanesi, mentre le milizie sciite in Iraq si muovono con cautela per evitare un confronto diretto con il governo di Baghdad. Al momento, né Hezbollah né le milizie sciite sembrano intenzionate ad attaccare Israele.

Con una popolazione superiore ai 90 milioni di abitanti, l’Iran è un Paese abituato a conflitti prolungati. Il regime teocratico coniuga elementi dell’ideologia sciita con il nazionalismo persiano nella sua opposizione a Israele. La retorica di Khamenei fa spesso riferimento a concetti religiosi quali la jihad ( la “guerra santa”) e la shahada (il sacrificio di sé), conducendo il conflitto secondo i principi classici della dottrina sciita, pur seguendo una linea strategica ben definita:

  1. garantire la tenuta interna del potere per evitare una destabilizzazione della società iraniana, già fortemente provata dalle difficoltà economiche e dal malcontento popolare;
  2. condurre trattative con l’Occidente adottando una linea di “pazienza strategica” (sabar), facendo ricorso al principio della taqiya – la dissimulazione – per celare le reali intenzioni e guadagnare tempo;
  3. utilizzare la retorica del martirio per mascherare l’inferiorità militare rispetto a Israele, trasformando il sacrificio individuale in un elemento di forza simbolica;
  4. affidarsi alla guerra per procura, attivando attori terzi come gli Houthi yemeniti e, in una fase successiva, Hezbollah e le milizie sciite in Iraq, indicate nella narrativa sciita come “gente di fede” e considerate parte dell’asse della resistenza.

Nella visione di Khamenei, la guerra contro Israele non deve necessariamente essere vinta sul piano militare, ma deve affermare una superiorità morale e religiosa. Secondo alcuni analisti, l’evoluzione del contesto interno, unito al peggioramento delle condizioni economiche e alla perdita di controllo sulle milizie alleate, potrebbe indurre Khamenei a rivedere gradualmente la propria strategia.

In questo scenario, è plausibile che l’Iran punti a un cessate il fuoco da presentare come una “vittoria morale” o “di coscienza”. Le organizzazioni affiliate potrebbero ricevere l’ordine di sospendere le ostilità, facendo apparire la posizione dell’Iran come determinata e vincente, pur senza ottenere successi sul campo. Contestualmente, potrebbero essere attivati canali riservati di comunicazione con gli Stati Uniti.

Fonti di alto livello sostengono che, pur di garantire la sopravvivenza del regime, la Guida Suprema non accetterà mai una resa formale. L’Iran non intende rinunciare ai programmi nucleari e di arricchimento dell’uranio, a meno che ciò non comporti un rischio reale per la stabilità interna. La strategia prevederebbe il ricorso a promesse ambigue volte a ingannare Stati Uniti e Israele, nel tentativo di guadagnare tempo e attenuare le pressioni internazionali.

Un punto debole strutturale dell’Iran è rappresentato dall’assenza di un confine diretto con Israele, che rende impossibili operazioni terrestri. Al contrario, Israele dispone di una netta superiorità aerea, che consente di colpire con precisione infrastrutture strategiche come siti nucleari e impianti per la produzione di missili balistici. Questo squilibrio potrebbe tradursi in una sconfitta militare per l’Iran.

Per contrastare questa disparità, Teheran sta cercando di elaborare una controstrategia orientata a colpire i civili israeliani, nel tentativo di aumentare i costi economici e sociali della guerra nel medio-lungo periodo. Tuttavia, la capacità dell’Iran di sostenere una guerra prolungata dipende in larga parte dalla tenuta del fronte interno.

Le operazioni del Mossad israeliano hanno già compromesso in modo significativo la rete di sicurezza interna iraniana. Se gli attacchi aerei israeliani dovessero proseguire con la stessa intensità, riducendo progressivamente la capacità offensiva dell’Iran, una ripresa militare potrebbe diventare estremamente difficile. Un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti rafforzerebbe ulteriormente la posizione israeliana e in tal caso, il regime iraniano potrebbe subire un colpo durissimo.

 

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